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”La vita davanti a sé” di Romain Gary e l’impossibilità di vivere senza qualcuno da amare

La vita davanti a sé, Romain Gary. Ve lo ricordate Io speriamo che me la cavo che il maestro napoletano Marcello D'Orta pubblicò nel 1990? Erano una sessantina di temi assegnati e svolti dai suoi scolari. Fu un successone. Ecco a questo libro fa talvolta pensare La vita davanti a sé (La vie devant soi) che un certo Emile Ajar diede alle stampe nel 1975...

Pubblichiamo la recensione di Stefano Franzato per la sua precisa analisi della psicologia del protagonista e degli eventi narrati nel libro

 

Ve lo ricordate Io speriamo che me la cavo che il maestro napoletano Marcello D’Orta pubblicò nel 1990? Erano una sessantina i temi assegnati e svolti dai suoi scolari. Fu un successone. Ecco a questo libro fa talvolta pensare La vita davanti a sé (La vie devant soi) che un certo Emile Ajar diede alle stampe nel 1975. Solo sei anni dopo si seppe che il nome dell’autore non era altro che lo pseudonimo del noto scrittore francese di origine lituana Romain Gary, nato nel 1914 e suicidatosi il 2 dicembre del 1980. Se talvolta questo romanzo fa pensare ai disillusi ma ancora ingenui scolari del maestro D’orta è perché chi scrive in prima persona è, in fondo una sorta di scugnizzo come loro, solo, forse, con alle spalle una storia molto più triste: Mohammed, detto Momò, un ragazzino che, si presume – è lui stesso a presumerlo per gran parte del libro – abbia dieci anni, vive a pensione dalla vecchia Madame Rose, ebrea, sfuggita miracolosamente allo sterminio nazista, e che da giovane esercitava sui marciapiedi parigini di Pigalle la professione più antica del mondo. Da tempo, ormai, visto che, con quel lavoro non si va in pensione a 60 e passa anni, sbarca il lunario tenendo a pensione, appunto, gli ”incidenti sul lavoro” delle sue giovani colleghe; Momò è uno di quegli incidenti. Non ne fa una malattia: lo sa, e, siccome è arabo, non ha molti contatti con altre persone di diversa estrazione sociale.

 

Madame Rose, le meretrici, i prosseneti, i travestiti (oggi trans), gli immigrati africani o ebrei non molto integrati nella società francese, lo stesso quartiere dove abita da cui non si è mai allontanato, sono il suo mondo, non ne ha conosciuti altri: lo accetta così come vi si è trovato dentro, con altri bambini nelle sue stesse condizioni. È la vita davanti a sé non soltanto in senso temporale ma, soprattutto, immediato, quotidiano. E questo mondo, non visto necessariamente quanto esclusivamente come quello degli adulti, con un linguaggio approssimativo ma efficace, egli lo giudica, con la sua ingenuità, e la sua “esperienza” di ragazzo che non sa bene quanti anni abbia ma che non è mai stato “abbastanza giovane per evitare le scocciature” o mai stato bambino perché aveva sempre “altri pensieri per la testa”. E ne scaturiscono delle considerazioni originali sui grandi temi dell’esistenza: la corsa alla felicità poco saggia e, comunque, incomprensibile tanto poca è la felicità nel mondo che non val proprio la pena affannarsi a cercarla. E poi il tema della condizioni degli anziani malati e della pietà delle loro sofferenze.

 

Col passar del tempo, Madame Rosa, come dice lui e gli ha detto il dottore, “degenera” in stati “d’abitudine” (alla fine, scriverà giusto “ebetudine”) sempre più lunghi da cui a volte recede e torna normale. Momò però sa che, prima o poi, Madame Rosa diverrà (un) “vegetale” e, vedendola soffrire senza possibilità di remissione e rimedio, non riesce a capire “perché l’aborto è autorizzato solo per i giovani e non per i vecchi…non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere e che non vuole più essere utile.” Non c’è cedimento alcuno in questa sua convinzione.

 

Di fronte a questa vita davanti a sé, Momò ha soltanto una domanda da porre al vecchio e ormai cieco signor Hamil che gli ha fatto da istitutore “si può vivere senza qualcuno da amare?” È senz’altro quello che si dice un “romanzo di formazione” che rimanda il pensiero non soltanto agli scolari del maestro D’Orta ma anche all’Holden Caulfield o al James Dunfour Sveck protagonisti dei due noti romanzi, rispettivamente Il giovane Holden (1951) e Un giorno questo dolore ti sarà utile (di Peter Cameron, 2007: del primo non dico l’autore tanto è famoso). Loro cercano o evitano la vita, Momò la vive: deve viverla perché ce l’ha “davanti a sé” e non può permettersi di viverla altrinenti, sa che “non si è mai troppo giovani per niente”. Come la vive ma in maniera più allegra, entusiasta e meno “scafata” il suo omonimo di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt (2001). In quest’ultimo romanzo la storia di Mosè/Momo finisce bene mentre nel romanzo di Gary non vi è proprio un lieto fine: la vicenda s’interrompe con il cambio di vita del protagonista presso una famiglia che l’accoglie e col suo messaggio conclusivo: arabi o ebrei, bambini o vecchi, non si può vivere senza qualcuno da amare, “bisogna voler bene”.

 

Stefano Franzato

 

28 maggio 2012

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