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Giovanni Pascoli, le poesie più belle

Giovanni Pascoli è considerato, insieme a Gabriele D’Annunzio, il più importante poeta decadente italiano. Ecco le sue poesie più celebri

Giovanni Pascoli è considerato, insieme a Gabriele D’Annunzio, il più importante poeta decadente italiano.

Nato il 31 dicembre 1855 e scomparso il 6 aprile 1912, nelle opere di Giovanni Pascoli possiamo riscontrare una concezione intima e interiore del sentimento poetico.

Tutta la poetica di Giovanni Pascoli è orientata alla valorizzazione del particolare e del quotidiano e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva.

Le poesie più celebri di Giovanni Pascoli

Abbiamo raccolto le sue poesie più famose. Ecco i versi più celebri di Giovanni Pascoli. 

Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

è l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Il lampo

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Sogno

Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un’angoscia muta.
– Mamma?-È là che ti scalda un po’ di cena-
Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.

Di lassù

La lodola perduta nell’aurora
si spazia, e di lassù canta alla villa,
che un fil di fumo qua e là vapora;

di lassù largamente bruni farsi
i solchi mira quella sua pupilla
lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.

Qualche zolla nel campo umido e nero
luccica al sole, netta come specchio:
fa il villano mannelle in suo pensiero,
e il canto del cuculo ha nell’orecchio.

X agosto

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

10 agosto, le lacrime di San Lorenzo nei versi di Giovanni Pascoli

10 agosto, le lacrime di San Lorenzo nei versi di Giovanni Pascoli

Il 10 agosto 1867 fu ucciso il padre di Giovanni Pascoli. In ricordo di quel giorno, il poeta scrisse la poesia “X agosto”

La gatta

Era una gatta, assai trita, e non era
d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino.
Ora, una notte, (su per il camino
s’ingolfava e rombava la bufera)

trassemi all’uscio il suon d’una preghiera,
e lei vidi e il suo figlio a lei vicino.
Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino
tra’ piedi; e sparve nella notte nera.

Che notte nera, piena di dolore!
Pianti e singulti e risa pazze e tetri
urli portava dai deserti il vento.

E la pioggia cadea, vasto fragore,
sferzando i muri e scoppiettando ai vetri.
Facea le fusa il piccolo, contento.

Maria

Ti splende su l’umile testa
la sera d’autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d’un’Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
nessuno:
così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
pietà:
quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
nessuno!
quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
già più!

Il brivido

Mi scosse, e mi corse
le vene il ribrezzo.
Passata m’è forse
rasente, col rezzo
dell’ombra sua nera,
la morte. . .
Com’era?
Veduta vanita,
com’ombra di mosca:
ma ombra infinita,
di nuvola fosca
che tutto fa sera:
la morte. . .
Com’era?
Tremenda e veloce
come un uragano
che senza una voce
dilegua via vano:
silenzio e bufera:
la morte. . .
Com’era?
Chi vede lei, serra
nè apre più gli occhi.
Lo metton sotterra
che niuno lo tocchi,
gli chieda – Com’era?
rispondi. . .
com’era?

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