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Giornata della Memoria, ecco le poesie più celebri per non dimenticare la Shoah

In occasione della Giornata della Memoria ecco le poesie più celebri ed emozionanti per non dimenticare l'orrore della Shoah

In occasione della Giornata della Memoria, vogliamo condividere alcune poesie d’autore, piene di emozioni. Il fine è non dimenticare la tragedia dell’Olocausto.

Poesie che arrivano da libri sulla Shoah, come il Diario di Anna Frank, vittima dello sterminio o di sopravvissuti alla Shoah come Primo Levi, con il suo libro Se questo è un uomo

diario anne frank originale
 Diario Anna Frank, Chiesa di San Nicola, Kiel, Germania

Poesie scritte anche da testimoni della Shoah e che per questo assumono un valore ancora più alto, simbolico, universale nella lotta contro ogni forma di razzismo e violenza.

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra la Giornata della memoria per non dimenticare l’Olocausto, istituita ufficialmente dalla Repubblica italiana nel 2000 per non dimenticare l’orrore dell’Olocausto.

Si è scelta proprio questa data perché il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata rossa buttarono giù i cancelli di ingresso al campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia. 

Cos’è la Shoah

Secondo quando riporta la Treccani, è un termine ebraico che significa tempesta devastante e presente nella Bibbia, per es. Isaia 47, 1.

Il termine indica lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale; è vocabolo preferito a olocausto in quanto non richiama, come quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile.

Fra il 1939 e il 1945 circa 6 milioni di Ebrei vennero sistematicamente uccisi dai nazisti del Terzo Reich con l’obiettivo folle e barbaro di creare un mondo più ‘puro’ e ‘pulito’.

Le leggi di Norimberga 1935

Le leggi di Norimberga del 1935 legittimarono il boicottaggio economico e l’esclusione sociale dei cittadini ebrei. 

Nella cosiddetta ‘notte dei cristalli’, ovvero 8-9 novembre 1938, in tutta la Germania le sinagoghe furono date alle fiamme e i negozi ebraici devastati.

Da quel momento il processo di segregazione e repressione subì un’accelerazione che sfociò nella decisione, presa dai vertici nazisti nella Conferenza di Wannsee (gennaio 1942), di porre fine alla questione ebraica attraverso lo sterminio sistematico.

I campi di concentramento e lo sterminio

Lo sterminio colpì gli ebrei presenti in tutti i territori del Terzo Reich. Gli ebrei furono in una prima fase ‘ghettizzati’, cioè forzosamente concentrati in appositi quartieri delle città e in seguito deportati nei campi di concentramento e di sterminio, costruiti soprattutto in Europa orientale.

Tra i campi diventati purtroppo famosi per l’orrore generato, Auschwitz, Treblinka, Dachau, Bergen Belsen, Mauthausen. Ma, molti campi erano disseminati in Europa, dove  giungevano ogni giorno convogli carichi di persone.

Dopo una prima selezione iniziale, che ‘salvava’ temporaneamente coloro che erano in grado di lavorare, una parte veniva inviata direttamente verso la meta cui tutti i deportati erano infine destinati: la camera a gas.

I campi di sterminio erano anche luoghi di torture, di esperimenti pseudoscientifici su cavie umane (come quelli effettuati sui gemelli di J. Mengele), di lavori sfiancanti e selezioni quotidiane.

Di tali atrocità è rimasta testimonianza nelle memorie di coloro che riuscirono a sopravvivere. Vittime dello sterminio, oltre agli Ebrei, furono anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova, oppositori politici.

Le poesie che seguono fanno parte delle testimonianze e sono un inno alla Memoria, nella speranza che la follia umana non si ripeti.

Giornata della Memoria, le frasi e gli aforismi per riflettere sulla Shoah

Giornata della Memoria, le frasi e gli aforismi per riflettere sulla Shoah

La Giornata della Memoria è la ricorrenza nazionale per ricordare l’orrore della Shoah. Ecco frasi e degli aforismi che invitano a riflettere

Giornata della Memoria, le poesie più profonde ed emozionanti

Aprile di Anna Frank

Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai
ad essere Felice.

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Shemà di Primo Levi 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

"Shemà (Se questo è un uomo)", la poesia di Primo Levi per riflettere sulla Shoah

“Shemà (Se questo è un uomo)”, la poesia di Primo Levi per riflettere sulla Shoah

Se questo è un uomo è una poesia estratta dall’omonimo libro del 1947 di Primo Levi, una delle opere principali da rileggere in vista della giornata della memoria.

Un paio di scarpette rosse di Joyce Lussu

C’è un paio di scarpette
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
‘Schulze Monaco’.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

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Auschwitz di Salvatore Quasimodo

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

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Ricordatevi di Benjamin Fondane

Ricordatevi solo che ero innocente
e che, come voi, mortali di quel giorno,
avevo avuto, anch’io, un volto segnato
dalla collera, dalla pietà e dalla gioia,
un volto d’uomo, semplicemente!

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La pietà ingiusta di Vittorio Sereni 

Mi prendono da parte, mi catechizzano:
il faut
faire attention, vous savez.
Et surtout si l’affaire
Doit marcher jusq’au bout,
ne causez pas de ces choses bien passées.
Il paraît qu’il en fut un, un SS
qu’il a été même dans l’armée
quoique pas allemand…

Ecco in cosa erano
forza e calma sospette
l’abnegazione nel lavoro, la
cura del particolare, la serietà
a ogni costo, fino in fondo…

Intorno c’è aria di niente, mani
sulla tavola, armi (chi le avesse)
al guardaroba: solo adesso
si comincia a capire – e l’affare un pretesto
il pranzo un trucco, una messinscena
benché non esistano dubbi sulle portate
benché non ci siano orripilanti cataste sulla tavola né sotto
 ma in cucina, chi può dirlo?
ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci,
matasse, matassine innocue, oro a scaglie
da coprirne un deserto di sale, di nubi d’anime
esalanti-esulanti da camini
con la piena dolcezza degli stormi d’autunno
altre anche meno visibili spazzate da una raffica in un’ora di notte

è una questione d’occhi fermi sul cammello che passa
e ripassa per la cruna in piena libertà 
e con tocchi di porpora una città
d’inverno, una città di cenere si propaga
dentro una lente di mitezza.
Solo adesso si comincia a capire.

Incredibile – dirò più tardi – le visioni
immotivate che si hanno a volte
(e pazienza per queste
ma esserne coinvolti al di là del giudizio
fino al tenero, fino all’indebita pietà …):
le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo
ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati
facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro
un reparto in sfacelo che si sbraca, se ne fotte
della resa con dignità, ma su tutte
quella faccia d’infortunio, di gioventù in malora
con la sua vampa di dispetto di bocciato
di espulso dal futuro
nell’ora già densa della campagna
verso l’estate che verrà …

Tra poco apparecchieranno, porteranno
le cartelle per la firma. Si firmerà.
Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà –
e lui rimesso in sesto, risarcito di vent’anni d’amaro
bene potus et pransus arbitro dell’affare.

Non si vede più niente. Se non – per un incauto
pensiero, per quel momento di pietà – quella mano
quel mozzicone di mano sulla parete.
Ci conta ci pesa ci divide. Firma.
E tutti quanti come niente – come la notte
ci dimentica.

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Prima Vennero di Martin Niemöller

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari 

e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 

Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 

Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

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Memoria di Natalia Ginzburg

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

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Sicuri nelle vostre tiepide case di Vivian Lamarque

Annoiato dal Giorno della Memoria
lui che tutti i santi giorni dell’anno
mai si annoia dell’insulso dejà vu della tv
giunta per una volta la fine di gennaio
“ancooora?” dice e cambia canale
per guardare anziché storia di orrori
horrori con l’h, come vi aveva ben previsti
Primo Levi voi che vivete sicuri nelle vostre
tiepide case a sera con scolpito dentro il cuore niente.

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Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941

Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.

Giornata della Memoria, le frasi e gli aforismi per riflettere sulla Shoah

Giornata della Memoria, le frasi e gli aforismi per riflettere sulla Shoah

La Giornata della Memoria è la ricorrenza nazionale per ricordare l’orrore della Shoah. Ecco frasi e degli aforismi che invitano a riflettere

Scritto a matita in un vagone piombato di Dan Pagis

Qui, in questo convoglio,
io Eva
con mio figlio Abele
Se vedrete mio figlio maggiore
Caino, figlio di Adamo,
ditegli che io

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Fuga di morte di Paul Celan

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini
e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra
e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate
egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri
vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti
egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco
egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria
e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria
egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

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Vehuda Amichai di Paul Celan

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo:
Essi non hanno immagine corporea né corpo.

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Olocausto di Barbara Sonek

Abbiamo suonato, abbiamo riso
eravamo amati.
Siamo stati strappati dalle braccia dei nostri
genitori e gettati nel fuoco.
Non eravamo altro che bambini.
Abbiamo avuto un futuro. Saremmo diventati avvocati, rabbini, mogli, insegnanti, madri. Avevamo dei sogni, quindi non avevamo speranze. Siamo stati portati via nel cuore della notte come bestiame in macchina, senza aria per respirare soffocando, piangendo, morendo di fame, morendo. Separato dal mondo per non esserci più. Dalle ceneri, ascolta il nostro appello. Questa atrocità per l’umanità non può ripetersi. Ricordati di noi, perché eravamo i bambini i cui sogni e vite furono rubati.

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Coro dei superstiti di Nelly Sachs

Noi superstiti
dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui nostri tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumare via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a lui dalla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi –

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Olocausto di Sudeep Pagedar

Come
spiegare quel termine
a un ragazzo di dieci anni
che un giorno
lo sente nominare
da alcuni parenti?

E anche se
ci riesci
per fargli
capire cosa
significa in effetti
digli anche perché
perché lui è

UN EBREO TEDESCO,

forse, un giorno,
lui potrebbe essere
incluso in esso …?

O non dovrebbe
essergli detto, in modo che
egli rimanga calmo
e non perda sonno su esso?

Ma cos’è il sonno,
di fronte alla morte?
Forse la morte è maggiore,
forse i due sono gli stessi;
non lo sappiamo ancora
ma lo sapremo, entro la fine della giornata;
le Camere sono ancora lontane per alcune ore.

“Morire, dormire … dormire, forse sognare …”

Come l’ha capito Shakespeare?
Conosceva qualche ebreo
che è stato anche perseguitato?
Forse aveva torto,
forse aveva ragione …
Comunque, sospetto che lo scopriremo
entro stanotte.

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Il proprietario delle scarpe n. 43 di Izet Sarajlić

Quanto amore
un calzolaio d’anteguerra
alla periferia di Leopoli
ha impiegato lavorando questi sandali
perché calzandoli
un bambino
corresse nel suo maggio.
Ed ecco,
adesso questi sandali
sono esposti nel museo di Auschwitz.
Uno potrebbe quasi
sentirsi colpevole.
Un uomo
arrivato alle scarpe numero 43.
E il quale,
nel 1941
anche lui
correva in identici sandali da bimbo.

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La farfalla di Pavel Friedman

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!

L’ultima
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

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Mauthausen di Lodovico Belgiojoso

Gusen, novembre 1944

Dal mattino alla sera
dalla sera al mattino,
girano le macchine maledette:
vibrano i forni dove ribolle
il sale rovente.
Noi, pezzi di ricambio,
sostituiti ogni dodici ore,
siamo condotti al lavoro e al riposo
in lunghe colonne. Incrocia
la colonna che sale alla fabbrica
quella che scende nel campo;
ci mettono a giacere
in tanti scaffali.
Ci danno il cibo giaccia a goccia
come l’olio alle macchine e quando
cade un compagno e non si rialza
viene rifuso nell’atmosfera
del crematorio.

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Memorandum di Hans Sahl

Un uomo, che alcuni ritenevano
saggio, dichiarò che dopo Auschwitz
non fosse più possibile alcuna poesia.
Sembra che delle poesie
l’uomo saggio non abbia avuto
alta considerazione –
quasi che queste servissero a consolare
l’anima di sensibili contabili
o fossero vetri intarsiati
attraverso i quali si guarda il mondo.
Noi crediamo che le poesie
siano ridiventate possibili
ora più che mai, per la semplice ragione che
solo in poesia si può esprimere
ciò che altrimenti
sarebbe superiore a ogni descrizione.

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La sera domenicale di Elsa Morante

Per il dolore delle corsie malate
e di tutte le mura carcerarie
e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani,
e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi
e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi
e i sussulti della concezione
e il sapore dolciastro del seme e delle morti,
per il corpo innumerevole del dolore
loro e mio,
oggi io ributto la ragione, maestà
che nega l’ultima grazia,
e passo la mia domenica con la demenza.
O preghiera trafitta dell’elevazione,
io rivendico per me la colpa dell’offesa
nel corpo vile.
Stàmpami nella mente malcresciuta
la tua grazia. Io ti ricevo.

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Assenza fatale di Marco Spyry

Un giorno Dio si assentò dalla Terra
per trascorrere interminabili anni di vacanze…
lasciando che il disordine degli eventi si manifestasse.
Le nubi oscurarono la luce dei cuori… e si scatenò l’inferno.
Campi di grano di spighe vuote inondati di sangue
di fiori morti… dai rigogliosi sprezzi e copiosi odi.
Coglievan le bestie a piene mani le vite innocenti
tra sordi e ciechi… e indifferenti macere coscienze.
Invano la Terra implorava pietà!
ma fu… la catastrofe dei popoli e dei valori umani.
Dio tornò e urlò alle genti… vergogna!
Marchiando l’uomo a bestia per sempre… e pianse.
Inondando la Terra da colpose lacrime per esser mancato…
e tornò alla luce, pian piano… la pace in Terra e nei cuori.

C’è un paio di scarpette rosse, la poesia di Joice Lossu per non dimenticare

C’è un paio di scarpette rosse, la poesia di Joice Lossu per non dimenticare

C’è un paio di scarpette rosse è una poesia di Joice Lossu per non dimenticare il dramma vissuto dai bambini nei campi di concentramento.

La paura di Eva Picková

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!

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E così avvenne di Itzhak Katzenelson

E così avvenne… e questo fu l’inizio… Cieli, ditemi perché, perché!
Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo?
La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli,
voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna!

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Il canto del popolo ebraico massacrato di Itzhak Katzenelson

La fine. Di notte il cielo è incandescente.
Di giorno si copre di fumo
e di notte torna ad accendersi. Orrore!
Come ai tempi del nostro inizio nell’arido deserto:
di giorno una colonna di nubi
e di notte una colonna di fuoco.
Allora il mio popolo, forte della sua fede,
camminava gioioso incontro a una nuova vita,
e ora – la fine, l’ultimo passo…
Ci hanno massacrato tutti sulla terra;
ci hanno sterminato tutti.

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Canta di Itzhak Katzenelson

Canta, prendi l’arpa nella tua mano vuota, svuotata e lieve,
sulle sue corde magre getta le tue dita dure,
come cuori in pena, l’ultimo dei canti,
canto degli ultimi yidn sul suolo d’Europa.

Come faccio a cantare? Come aprire la bocca
se sono rimasto io solo solamente?
Mi moglie, i miei due cuccioli, orrendo
un orrore mi scuote, piangere, da lontano sento piangere.

Canta, canta, solleva in alto la tua voce di pena e di rovina.
Cerca, cercalo lassù da qualche parte, se ancora ci sta.
E cantagli, canta per lui l’ultimo canto dell’ultimo degli yidin,
vissuto, morto, non sepolto e nient’altro.

Come faccio a cantare? Come posso levare la testa?
Mia moglie portata via, il mio Bentzi e Yomele,
piccolino,
non li ho più e non mi lasciano mai.
Ombre scure dei miei luminosi, ombre gelate e cieche.

Canta, canta un’ultima volta ancora sulla terra, getta
la testa indietro, rovescia gli occhi pesanti su di lui
e canta per l’ultima volta, suona per lui sull’arpa.
Non ce n’è più di yidn. Messi a morte
non ce ne sono più.

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Auschwitz di Francesco Guccini

Son morto ch’ero bambino
son morto con altri cento
passato per il camino
e adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c’era la neve
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano non ho imparato
a sorridere qui nel vento.

Io chiedo come può l’uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.

Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.

Saro Trovato

[]

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