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Gianni Berengo Gardin, “La fotografia analogica è superiore al digitale”

Dal 26 al 28 maggio si terrà l’ottava edizione di "Pistoia – Dialoghi sull’uomo", festival al quale Berengo Gardin parteciperà con una mostra

MILANO – Da venerdì 26 a domenica 28 maggio si terrà l’ottava edizione di “Pistoia – Dialoghi sull’uomo“, festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Ed è la stessa Giulia Cogoli a curare la mostra fotografica “In festa. Viaggio nella cultura popolare italiana” realizzata appositamente per il festival dal grande maestro della fotografia contemporanea Gianni Berengo Gardin. Si tratta di sessanta fotografie in bianco e nero realizzate fra 1957 e il 2009, che – con uno sguardo dal taglio etnografico – raccontano la società italiana, i suoi riti e mutamenti, le feste popolari, i costumi e le tradizioni antiche e meticce di tutte le regioni. La mostra, che inaugurerà il 26 maggio in concomitanza dell’apertura del festival, sarà aperta fino al 2 luglio nelle Sale Affrescate del Palazzo Comunale di Pistoia. Per l’occasione abbiamo intervistato il maestro.

Le fotografie sono state scattate tra il 1957 e il 2009, un arco temporale molto ampio. Crede che l’Italia popolare sia cambiata in questi anni?

Sì, secondo me è cambiata perché una volta queste manifestazioni erano proprio popolari nel senso più ampio della parola. Oggi, invece, non sono più così spontanee ma sono organizzate dai comuni, dalle associazioni, quindi sono meno naturali, meno genuine in qualche modo. Volevo dirle poi che delle sessanta fotografie, scelte dal mio archivio, quaranta sono completamente inedite, non sono mai state stampate fino ad ora. Quindi la mostra avrà il vantaggio importante di ospitare foto mai viste prima.

Racconta in queste fotografie un’Italia in festa, intenta a conservare e onorare i propri riti. Secondo lei qual è il rapporto degli italiani con questi riti e con le tradizioni popolari?

Secondo me una volta era più forte. Adesso i giovani sono un po’ meno legati alle tradizioni, preferiscono andare in discoteca o la sera a bere più del necessario. Cè un altro rapporto.

Com’era prima?

C’era familiarità tra le persone, anche se si conoscevano alla festa era come se si conoscessero da parecchio tempo, c’era una familiarità maggiore.

Una familiarità maggiore e un senso maggiore di comunità, forse.

Sì, esatto. E secondo me contava anche il credo politico sia di quelli di sinistra che di quelli di destra. Anche la politica in qualche modo c’entrava.

Visto che ha citato la politica, come mai secondo lei i giovani si sono allontanati tanto dalla politica? Come se lo Stato non li riguardasse più.

Non lo so proprio. Per quanto mi riguarda, ero comunista allora, di sinistra. Adesso, invece, anch’io sono cambiato, nell’animo sono sempre comunista, ma nella pratica sono di una sinistra generale.

Ora che la fotografia è alla portata di tutti, qual è secondo lei la funzione dei fotografi di reportage?

Per i fotografi di reportage il lavoro è finito, non c’è più lavoro per loro. C’è lavoro per i fotografi di moda, di pubblicità e di architettura. Il reportage ormai lo fanno tutti, anche con il telefonino, e quindi c’è un’inflazione di fotografie, spesso buone, ma la maggioranza sono foto cattivissime.

Quali sono gli ingredienti per una buona fotografia?

Il contenuto che racconti qualcosa (e quelle di oggi raccontano poco), un contenuto unito possibilmente, anche se non sempre è necessario, a un valore formale.

Il tema dei Dialoghi sull’uomo quest’anno è “La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi”. Qual è secondo lei il ruolo della cultura oggi?

La cultura è sempre stata importante ed è importante anche oggi. Con la fotografia si può fare cultura, si può fare divertimento, si possono far vedere le cose in modo superficiale, ma tantissimi la usano per approfondire dei temi, per fare cultura.

Si immagini un ragazzo che prende per la prima volta in mano una macchina fotografia. Che cosa gli direbbe?

Gli direi di non scattare a mitraglia, come si fa oggi col digitale, ma di partire con un progetto ben preciso, di voler raccontare qualcosa, di pensare prima di scattare. Ormai si scatta a caso, invece bisogna prima pensare e allora, caso mai, scattare, non sempre bisogna scattare. Se il soggetto e l’argomento meritano si scatta, altrimenti non si scatta. A Milano una casa importante che produce macchine fotografie digitali ha fatto una grande pubblicità dove diceva: “Non pensare, scatta”. Io ai miei studenti dico l’esatto contrario.

Tra l’altro lei scatta ancora con la pellicola. 

Sì, scatto ancora con la pellicola perché penso che sia molto superiore al digitale. Il digitale ha solo due vantaggi: l’immediatezza (uno fa una foto e due minuti dopo può spedirla a Delhi o a Mosca) e la possibilità di poter cambiare la sensibilità (se è stata scattata in un posto chiaro puoi abbassare la sensibilità e viceversa).

Cosa rende l’analogico superiore al digitale?

Soprattutto gli archivi, in digitale non esisteranno più gli archivi. Invece sono importanti, come dimostra questa mia mostra, che comprende fotografie di sessant’anni fa. Un negativo è sempre stampabile anche dopo duecento o trecento anni. Per il digitale, invece, non si può mai sapere. Io che lavoro per l’archivio, il negativo è importantissimo. Per di più (dice ridendo, ndr) oggi fanno dei programmi digitali con la grana che assomiglia al negativo. Tanto vale usare allora una pellicola qualsiasi. D’altra parte c’è un ritorno alla pellicola, come c’è un ritorno all’analogico.

La qualità premia.

La qualità premia senz’altro.

 

© Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

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