Sei qui: Home » Poesie » Giosuè Carducci, le poesie più belle

Giosuè Carducci, le poesie più belle

Il 27 luglio 1835 nasceva il poeta Giosuè Carducci, Premio Nobel per la letteratura. Lo vogliamo ricordare con le sue poesie più importanti

In occasione dell’anniversario di Giosuè Carducci, nato il 27 luglio 1835 a Pietrasanta e scomparso il 16 febbraio 1907 a Bologna, ecco una selezione dei suoi versi più importanti e famosi. Cantore dell’amor di patria e della bellezza della natura, è stato il primo italiano a ricevere il Premio Nobel per la letteratura.

“Alla Vittoria”, la poesia di Carducci sulla libertà

“Alla Vittoria”, la poesia di Carducci sulla libertà

“Alla Vittoria” è una poesia di Giosuè Carducci scritta nel maggio del 1877 e contenuta nella raccolta “Delle odi barbare”

Le poesie più celebri di Giosuè Carducci

Ricordiamo il celebre poeta italiano Giosuè Carducci con una selezione delle sue poesie più celebri.

 

San Martino

La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’ esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

 

Nostalgia

Là in Maremma ove fiorio
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel cielo librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co’l tuon vo’ sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

 

Ideale

Poi che un sereno vapor d’ambrosia
da la tua coppa diffuso avvolsemi,
o Ebe con passo di dea
trasvolata sorridendo via;

non più del tempo l’ombra o de l’algide
cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
o Ebe, l’ellenica vita
tranquilla ne le vene fluire.

E i ruinati giù pe ‘l declivio
de l’età mesta giorni risursero,
o Ebe, nel tuo dolce lume
agognanti di rinnovellare;

e i novelli anni da la caligine
volenterosi la fronte adergono,
o Ebe, al tuo raggio che sale
tremolando e roseo li saluta.

A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
stella, da l’alto. Tale ne i gotici
delùbri, tra candide e nere
cuspidi rapide salïenti

con doppia al cielo fila marmorea,
sta su l’estremo pinnacol placida
la dolce fanciulla di Jesse
tutta avvolta di faville d’oro.

Le ville e il verde piano d’argentei
fiumi rigato contempla aerea,
le messi ondeggianti ne’ campi,
le raggianti sopra l’alpe nevi:

a lei d’intorno le nubi volano;
fuor de le nubi ride ella fulgida
a l’albe di maggio fiorenti,
a gli occasi di novembre mesti.

.

La madre

Lei certo l’alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co ‘l piè ratto
passar tra i roridi odor del fieno.

Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su ‘l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.

E quando alzava da l’opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.

Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che a’ lucidi occhi materni

intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d’inquïetudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.

A lei d’intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
su l’aia il florido gallo canta.

Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
così di sante visïoni
conforta l’anime, o Adrïano:

onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un’alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
Quando securo sarà l’amore?

Quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole: ‘Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro’?

.

In riva al mare

Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.

Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.

La ragion de le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde belve ed arene invan furenti:

Come su questa solitaria duna
L’ire tue negre e gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.

.

Virgilio

Come, quando su’ campi arsi la pia
Luna imminente il gelo estivo infonde,
Mormora al bianco lume il rio tra via
Riscintillando tra le brevi sponde;

E il secreto usignuolo entro le fronde
Empie il vasto seren di melodia,
Ascolta il viatore ed a le bionde
Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;

Ed orba madre, che doleasi in vano,
Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
E in quel diffuso albor l’animo queta;

Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
Tale il tuo verso a me, divin poeta.

.

Davanti alle terme di Caracalla

Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.

A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a più ardua sfida
levansi enormi.

‘Vecchi giganti’ par che insista irato
l’augure stormo ‘a che tentate il cielo?’
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.

Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ‘l Campidoglio

e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l’Appia via.

.

© Riproduzione Riservata