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Don Pino Puglisi, perché è importante ricordarlo ancora oggi

Per ricordare la tragica scomparsa di Don Pino Puglisi, abbiamo intervistato il giornalista e scrittore Fulvio Scaglione, autore del libro "Padre Pino Puglisi. Martire di mafia, per la prima volta raccontato dai familiari"

Metteva in opera presso i giovani una proposta di vita antitetica a quella mafiosa, basata sull’intesa e non sulla legge del più forte, sulla comprensione reciproca e non sull’homo homini lupus. Minava alla base i presupposti della cultura malavitosa.

Era questo don Pino Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio ucciso dai killer della mafia il 15 settembre del 1993.

In occasione dei 30 anni dalla sua morte, vi riproponiamo l’intervista a Fulvio Scaglione, giornalista, scrittore e vice-direttore di Famiglia Cristiana dal 2000 al 2016, autore del libro “Padre Pino Puglisi. Martire di mafia, per la prima volta raccontato dai familiari“.

In questo libro, e per la prima volta, i familiari di padre Pino ne tracciano un ritratto sorprendente che parte dalla giovinezza, dalla vocazione, dall’impegno con i ragazzi. Ma anche dal rapporto con la madre e i fratelli, dalla delicata funzione di supporto ai nipoti.

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Alessandro D’Avenia, ”Gli eroi oggi sono quelli che lavorano senza scorciatoie, raccomandazioni, furberie”

‘Sono stanco della retorica antimafia, che ha fatto cattiva memoria ai Falcone, ai Borsellino e ai Puglisi. Li abbiamo spinti talmente in alto che non significano più nulla nel quotidiano.’ Parole forti ma condivisibili quelle di Alessandro D’Avenia…

Un omaggio a don Pino Puglisi, un intellettuale, un lettore onnivoro, un religioso con la casa piena di libri di ogni genere, un insegnante e un leader spirituale, ma soprattutto un prete.

Fin dall’ordinazione, si era “sporcato le mani” con tutti i problemi più scottanti della sua città, Palermo, e della sua isola.

Don Pino Puglisi, perché è importante ricordarlo ancora oggi

Quale nuova chiave di lettura propone il tuo libro in merito alla vita di don Pino Puglisi?

Nei tanti anni ormai trascorsi dall’assassinio, sulla figura e l’opera di padre Pino Puglisi sono stati pubblicati almeno 70 libri.

Molti di questi libri sono molto buoni quando non ottimi. Per questo non avrebbe avuto senso scrivere l’ennesima biografia o l’ennesima ricostruzione degli eventi di quel tragico 15 settembre 1993.

Viceversa, nella storia dell’eroe repubblicano e del martire Puglisi c’era tutto un aspetto che, stranamente, era stato quasi del tutto trascurato: la famiglia d’origine.

I rapporti tra Puglisi e i “suoi”, che sono stati a loro modo decisivi, si veda, per esempio, la figura della madre o le relazioni con i fratelli Gaetano e Francesco.

Il rapporto tra i familiari e la tragedia in tutte le sue conseguenze. Il rapporto con la Chiesa e con lo Stato, che si sono in qualche modo “impossessati” dell’eroe e del martire.

Il tema del perdono, relativamente ai due killer, Spatuzza e Grigoli, che sono poi diventati, soprattutto il primo, importanti pentiti di mafia.

E proprio questo è il nucleo del mio libro. Senza dire, poi, della messe di ricordi e testimonianze che questa famiglia, soffrendo nel rievocare ma con grande disponibilità, ha messo tramite me a disposizione dei lettori.

Perché Padre Pino Puglisi è morto?

Don Pino Puglisi, a differenza di quanto si sente spesso ripetere, non era “il prete di Brancaccio” e non era “un prete antimafia”. A Brancaccio Puglisi era nato, da piccolissimo se n’era andato con la famiglia sfollata per la guerra e a Brancaccio era tornato negli ultimi tre anni della sua vita. E non faceva “antimafia”, più volte dal pulpito della parrocchia si San Gaetano aveva invitato i mafiosi al dialogo, all’incontro. Puglisi era molto più di questo.

Fu ammazzato, tra l’altro dai killer più pericolosi della famiglia mafiosa che aveva le mani in pasta in tutte le stragi (Falcone, Borsellino, via dei Georgofili a Firenze, il Pac a Milano, le bombe contro le basiliche a Roma, il fallito attentato alla Stadio Olimpico a Roma…) di quegli anni, perché metteva in opera presso i giovani una proposta di vita antitetica a quella mafiosa, basata sull’intesa e non sulla legge del più forte, sulla comprensione reciproca e non sull’homo homini lupus. Minava alla base, cioè, i presupposti della cultura malavitosa.

C’è un episodio che ho trovato bellissimo, e molto indicativo. Poco prima di essere ucciso, padre Puglisi incontrò Luciano Violante, che in quel periodo era presidente della Commissione antimafia, e lo invitò ad andare a trovarlo a Brancaccio. Violante gli chiese: ma lei che cosa fa, in quel quartiere? E Puglisi rispose solo: “Insegno ai ragazzi a chiedere per favore”.

Perché è importante ricordare  don Pino Puglisi?

Per tante ragioni. Intanto perché quella del crimine organizzato, pur avendo la mafia siciliana patito tante sconfitte da parte dello Stato, è una piaga ancora aperta e dolorosissima.

E la risposta di Puglisi è tuttora una delle più interessanti ed efficaci. Puglisi era un intellettuale, un lettore onnivoro, un religioso con la casa piena di libri di ogni genere, un insegnante e un leader spirituale.

Ma era anche un prete che, fin dall’ordinazione, si era “sporcato le mani” con tutti i problemi più scottanti della sua città, Palermo, e della sua isola.

Prima di arrivare a Brancaccio aveva lavorato con i contadini inurbati dei quartieri poveri, con i terremotati del Belice.

Aveva lavorato con gli orfani, era rimasto anni sulla montagna palermitana nei paesi squassati dalle faide.

E a Brancaccio, appena arrivato, aveva fondato il Centro di Accoglienza Padre Nostro, ben deciso a incidere sulla situazione sociale di un quartiere ad alta densità mafiosa ma anche privo dei più elementari servizi.

E’ giusto ricordare Don Pino Puglisi, ma è ancora più giusto studiarlo.

Cosa ha lasciato in eredità oggi?

Di Don Pino Puglisi resta un formidabile esempio, vivissimo non solo nei suoi familiari ma in centinaia di persone che lo conobbero, lo frequentarono, lo videro all’opera.

Una cosa che tutti, indistintamente, ricordano di lui era la formidabile capacità di ascolto che riservava a chiunque volesse confrontarsi con lui.  

E poi quel senso di una Chiesa viva e attiva presso le persone vive che era così tipico del suo modo di fare. Non a caso una delle sue frasi più celebri è: ”Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”.

Responsabilità individuale e sensibilità sociale, insomma. Anche se, per praticarle insieme e a quel livello, occorreva essere eroi e martiri.

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