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Pochi laureati assunti in Italia? Titoli di studio non coincidono con acquisizione valide competenze

Sono stati resi noti i risultati del Rapporto Ocse 2015, una mappa dei sistemi educativi dei 34 Paesi che ne fanno parte. Dalle rilevazioni, un dato appare preoccupante nel nostro Paese: il basso numero dei laureati perché c’è un divario tra preparazione accademica ed esigenze del mondo del lavoro. Infatti, nel 2014 in Italia soltanto il 62% dei laureati tra i 25 e i 34 anni aveva un’occupazione, una percentuale uguale solo a quella della Grecia. Solo il 42% dei diplomati si iscrive all’università, mentre la percentuale odierna dei giovani laureati si aggira sul 34% (contro il 50% della media Ocse).

Il rapporto è importante oltre che per le percentuali appena esposte, per le considerazioni che riguardano il sistema educativo italiano del quale individua i principali motivi che impediscono un miglioramento e una maggiore interazione sociale. In realtà, le principali carenze sono dovute alla scarsa domanda di lavoratori laureati con qualifiche adeguate alle richieste dei datori di lavoro, perché “spesso i titoli di studio non coincidono con l’acquisizione di valide competenze, sollevando così interrogativi sulla qualità dell’apprendimento nelle istituzioni dell’istruzione universitaria”. A tal uopo il documento precisa: “Molti laureati hanno difficoltà nell’integrare, interpretare o sintetizzare le informazioni contenute in testi complessi o lunghi, nonché nel valutare la fondatezza di affermazioni o argomentazioni”.

E’ una lacuna che riguarda la strutturazione dei corsi universitari nazionali, il che a sua volta determina un minor inserimento nel mondo del lavoro e quindi un inevitabile ristagno economico. Siamo lontani dal raggiungere l’obiettivo europeo del 2020: 4 laureati su 10. Se i laureati sono carenti, abbondano i possessori di un titolo specialistico post-laurea come i master – il 20% contro il 17% dei paesi Ocse – mentre mancano gli esperti in corsi universitari brevi professionalizzanti che nel contesto economico odierno costituiscono i quadri intermedi, dei quali le aziende hanno necessità. L’università italiana – nonostante la riforma Berlinguer che istituzionalizza i corsi di lauree brevi – continua a perseguire la sua funzione tradizionale: di selezionare la classe dirigente piuttosto che adeguarsi alle esigenze professionali del mercato del lavoro. Inoltre – puntualizza l’Ocse – il livello di preparazione è talmente basso che non pochi universitari hanno difficoltà a sintetizzare testi lunghi e complessi.

Il gap è attribuito agli insufficienti stanziamenti finanziari destinati dal governo al settore dell’istruzione: lo 0,9% del Pil (in Germania e in Francia è rispettivamente dell’1,2% e del 1,4%). Per tacere poi degli stipendi degli insegnanti che sono nettamente al di sotto di quelli dei colleghi degli altri stati. Né i 400 milioni stanziati dalla legge di Stabilità per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici sono destinati a migliorare la situazione attuale se – secondo le cifre dei sindacati – si concretizzerà in 10 euro lordi (7 netti) in più nella loro busta paga. Non meno preoccupante è il fenomeno degli studenti universitari italiani che preferiscono studiare all’estero: nel 2013 circa 46mila erano iscritti in strutture terziarie di altri Paesi dell’Ocse, 3mila in altri stati. I più gettonati sono il Regno Unito, Austria, Francia e Germania. Al contrario, le università italiane attraggono pochi studenti stranieri. Nel 2013 sono stati 16mila: il gruppo più numeroso proveniva dalla Grecia. Troppo pochi rispetto ai 46mila studenti iscritti nelle università francesi e ai 68mila in quelle tedesche.

Giuseppe Sangregorio

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