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”Non ho paura”, una mattinata in biblioteca sul tema della violenza alle donne e sull’autodifesa

Creare un'occasione per affrontare il problema della violenza narrando storie di donne, condividendo la competenza e l'esperienza, e partendo soprattutto dal dare voce alla paura della debolezza, di non essere mai all'altezza...

Ecco il resoconto di Sandra Giuliani, presidente dell’Associazione Donne di carta, che ha coordinato l’iniziativa tenutasi sabato scorso presso la Biblioteca Comunale di Roma

MILANO – Creare un’occasione per affrontare il problema della violenza narrando storie di donne, condividendo la competenza e l’esperienza, e partendo soprattutto dal dare voce alla paura della debolezza, di non essere mai all’altezza. Con questa premessa sabato scorso si è tenuto presso la Biblioteca Comunale di Roma “Non ho paura”, l’incontro sul tema della violenza alle donne e sull’autodifesa coordinato da Sandra Giuliani, titolare della ex casa editrice Il Caso e il Vento e presidente dell’Associazione Donne di carta. Ecco il suo resoconto.

Antonio Trimarco apre la mattinata e dal tono delle sue parole so che siamo nel posto giusto, al momento giusto, con le persone giuste: troppe donne ovvio, come al solito, qualche uomo: due, forse tre o quattro. Non c’è "media" sulle 40 presenze. Racconta di sé, di un episodio di violenza subito, di come l’esperienza di karate gli abbia consegnato almeno la tranquillità nel vivere la situazione senza perdere la testa, e poi continua sull’importanza di eventi come questo che sono il segnale di una reazione contro la violenza che dilaga, cita gli ultimi casi, il suo orrore per la donna acidificata, l’averne parlato a cuore aperto, più volte, con sua moglie, inorridito. Lo ascolto. Non è un discorso di convenienza, ha scelto il tono di chi si mette in gioco, e quel semplice atto di citare più volte la moglie, è un segnale di autenticità. Penso: forse ce la facciamo, forse è possibile costruire una complicità o un dialogo.

Poi tocca a loro. Gli allievi del maestro Angelo Cialente (Obiettivo Karate Roma). Siamo prima seduti ad ascoltare poi tutto quel parlare di corpi fa effetto: ci alziamo, occupiamo lo spazio liberato dai tavoli all’interno della Biblioteca trasformata in una palestra. Loro ci mostrano alcune mosse di difesa, del tipo: reagisci per creare una via di fuga. Reagisci? Penso: io sarei capace, se gli mollo un pugno, di fermarmi a chiedergli se gli ho fatto male… Reagisci?

Pochi movimenti e molte parole. Parole che parlano di equilibrio fisico, e mentale: non avere paura, stai calma, respira. Ma soprattutto gioca sulla sorpresa: lui non s’aspetta che una preda reagisca. Lui non s’aspetta che tu non abbia paura. Siamo in 40 a provare, ridendo. Vedo gambe lanciate in aria in modo scomposto. I due istruttori passano attraverso i nostri corpi che giocano: aggiustano una postura, consigliano un movimento, correggono un’interpretazione.

Quando scoccano le 10.30 arriva la vigile della polizia municipale Rosalba Pucciariello; ha poco tempo per stare con noi, deve scappare… blocchiamo la sessione per sistemarci con le sedie in un circolo. È solo allora che mi accorgo che è arrivato anche Gianni Paris, il presidente del Municipio, che nella commozione del momento chiamo Renzo. Non me l’aspettavo. Non mi aspettavo la sua lettera aperta, ieri, in cui comunicava al territorio il nostro evento sottolineandone l’importanza, segnalando la continuità con la "Giornata particolare" che il municipio aveva voluto dedicare al Femminicidio. Nel presentarlo, Antonio dichiara che sono commossa, e lo sono sul serio: sbaglio il suo Nome, lo ringrazio e sto zitta.

Rosalba prende la parola. Il Presidente del Municipio è accanto a lei e ascolta, come tutti, ascolta la storia di Rosalba, la vigile aggredita nel suo posto di lavoro quasi sicuramente da un collega probabilmente sorpreso mentre stava rubando qualcosa dagli armadietti, un’aggressione vigliacca (ma quale aggressione non lo è?), di spalle, che l’ha segnata come violenza due volte, nel corpo per il danno ricevuto e nella non giustizia perché il suo Comando ha fatto cadere l’indagine. È così che una donna abbandona il suo posto di lavoro, va altrove. Per non grazia ricevuta.

Poi i discorsi s’intrecciano. Ci sono diverse persone, donne, nella biblioteca-palestra-agorà che appartengono alla polizia municipale, conoscono la sua storia, aggiungono riflessioni, commenti: sono donne che appartengono alla prima generazione di vigili donna, ognuna ha una storia di non rispetto e di non giustizia alle spalle. Lunga è la vita delle non parità. Paris s’intreccia a queste prime battute, partecipa, commenta. Poi si congeda ringraziandoci.

Ogni donna che parla parte da sé, dal lavoro che svolge, come Assia Corsi, psicologa-musicoterapeuta, dalla storia di violenze subite: psicologiche non solo fisiche, pesantezze di disparità, sempre. Con reazioni solitarie, private grazie agli strumenti posseduti: autostima, cultura, età. Un’altra confida – la voce intima e arrabbiata insieme –: mi sono sempre salvata perché non ho perso la calma, perché ho manipolato l’altro e non ho avuto paura di reagire anche davanti a un branco perché se colpisci uno gli altri si fermano. Un’altra ancora si lamenta: perché gli uomini oggi non ci sono? A che serve parlare sempre tra di noi? Perché non avete portato i figli maschi e i mariti?

Si parla di femminismo, che non è una brutta parola, soprattutto perché molte in sala lo hanno vissuto anagraficamente: è una parte della vita. Una giovane donna si rifiuta di usare la parola "autostima", la sente troppo centrata sull’ego, chiede apertura all’altro, co-costruzione dell’identità attraverso l’altro. È un’insegnante di yoga ma nella forza della sua reazione linguistica c’è anche un rigetto della piega che sta prendendo il discorso sul femminismo… quell’essere sempre sul filo di una lama che questa parola provoca inevitabilmente, a distanza di… età. Io penso che non abbiamo trovato ancora le parole giuste per raccontare un pezzo della nostra vita.

Autostima, identità, relazione. Mi viene spontaneo rispondere a una storia del Sé con le parole prese in prestito da una canzone d’amore, quelle famose di Modugno "Ma come hai fatto". Le dico in reazione a un racconto di amore violento, vorrei che dicendole a voce alta tutte e tutti capissero che in quelle parole abbiamo contratto una malattia comune: l’ideale dell’Amore romantico, l’Amore che fa con-fusione, che annienta le singolarità… e trasforma la vita in un filo tra le dita di un altro. Dico il testo ma so che forse l’intenzione resta intenzione: è difficile scollarsi di dosso l’idea che l’amore con la maiuscola sia profondamente sbagliato (Lidia, Lidia Castellani ho paura che non siamo ancora pronte a vaccinare le bambine contro la paura della solitudine per difenderle dall’idiozia del grande amore!).

Si parla di modelli femminili che mancano: le donne di potere sono peggio degli uomini- rivanga qualcuna. Si alza una voce in risposta che ci spiega la la "sindrome dell’ape regina". Mi volto sorpresa, che roba è? Le donne che conquistano il potere non solo devono fare più fatica e valere più degli uomini ma quando sono arrivate non possono mostrare quella complicità che le altre donne vorrebbero, anzi, che si aspettano, che pretendono da donna a donna, perché quel potere non ammette, per mantenerlo, nessuna debolezza, e la complicità lo sarebbe. Accidenti, dovremmo fare una sosta: questo è un discorso da sviscerare, qui c’è il cuore del nostro rapporto di fuga dal potere, la nostra paura "di essere come gli uomini", paura/invidia/livore per le donne che ce la fanno.

Ma il discorso svia sui modelli: quelli che ci sono, criticati perché eccezionali, quelli che vorremmo inventare. Poi, non so bene quando, è tutto un lungo piano sequenza nella mia memoria: poi, appaiono loro, le attrici della Compagnia "Expresso Teatro". Prendono il leggio, lo mettono al centro del cerchio e ci regalano – in un silenzio stupefatto e spontaneo – passi del loro lavoro di teatro civile. Sono dati agghiaccianti di morti di donne. Sono una storia crudele e paradossale di una lunga perdita di autonomia, di dignità di una donna prigioniera di un amore fatto di divieti in nome di una felicità che non arriva mai. Parole senza sentimentalismi. Il sentimento non abita più la realtà?

Un orizzonte, enorme. Si apre, si chiude. Parole: modelli, potere, aspettative. Giudizi.
Una persona libro s’inserisce con il testo su "Artemisia Gentileschi" di Anna Banti: una donna che voleva fare a tutti i costi la pittrice in un mondo di maschi, violata, non sorretta dal padre, sola. La sua vittoria (potere) senza felicità. Le sue parole arrivano come una sferzata: sono una risposta a chi si lamentava del vuoto che il femminismo ha lasciato, quell’assenza di eredità che ha creato un vuoto generazionale.

Modelli. La forza delle donne, nonostante tutto, arriva. Ma si tratta di donne eccezionali. Di eccezioni. Questo è il punto. Questo è un nodo. Che strangola. L’importanza di non essere normali – penso, mia cara Beauvoir. È cambiato il modo, forse, nelle generazioni successive, di pensarsi donne? È per questo che non ci capiamo?

Autostima, pregiudizi, disparità sociale, modelli, solitudine. Femminismo e nuove generazioni. Tanta carne al fuoco. Necessaria. Siamo agli inizi di una narrazione. Vogliamo dire tutto e il contrario di tutto. Balbettiamo tutte le parole che viviamo ogni giorno. E non abbiamo mai né un luogo né un tempo per dirle.

È arrivata Ginevra Gigliozzi, la nostra coreografa della Scuola "Pura Vida", trafelata e sopravvissuta al traffico: le vigili sono corse via per andare al lavoro, siamo restate in una trentina. Ci mettiamo dietro di lei a imitare i suoi gesti. La musica è una melodia tribale, percussiva. I gesti sono tanti: braccia, gambe, petto, piedi. Perdo la coordinazione, mi dimentico la sequenza. Mi guardo intorno. Ballano tutte. Anche gli uomini. Una bibliotecaria abbandona il desk della biblioteca e si unisce a noi. Ci fronteggiamo in due squadre, poi componiamo due circoli che s’intrecciano – si fa per dire, ripetiamo più volte passi e movenze. Si aggiunge un uomo, Pierluigi, un habitué del Circolo di lettura della biblioteca. Ripetiamo tutto daccapo. Passi mambo, mani aperte a schiaffeggiare le cosce, frustate con il petto a culo alto. Poi il giro su se stessi, poi il cerchio dentro il cerchio. Penso: Ginevra è pazza. Ma tutte/i ballano.

Sono le 13.30, la biblioteca deve chiudere. Stop! Basta!
L’applaudiamo.
Ci applaudiamo a lungo, ridendo.
La narrazione è solo cominciata.
Siamo pronte al viaggio.

27 aprile 2013

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