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La crisi dei profughi nel Pacifico, Australia falsa “terra promessa”

Se ne è parlato nel corso di dell'incontro "Frontiere chiuse, respingimenti e centri di detenzione offshore. La crisi dei profughi nel Pacifico"

FERRARA – Uno dei percorsi del Festival dell’Internazionale 2015 di Ferrara è dedicato alle nuove frontiere, tema affrontato in maniera davvero globale dal Mediterraneo al Pacifico. L’attenzione si è soffermata in particolare sull’ Australia, una falsa “terra promessa”, nel corso di un incontro Frontiere chiuse, respingimenti e centri di detenzione offshore. La crisi dei profughi nel Pacifico, in cui hanno partecipato Ben Doherty, giornalista australiano del The Guardian, Jeff Sparrow, anch’ egli opinionista del The Guardian e redattore di una rivista letteraria radical Overhall, Sam Wallman che ha raccontato la vita nei centri di detenzione offshore in un fumetto Sogno di una guardia, pubblicato anche nella rivista italiana ed infine il fotogiornalista olandese Joel Van Houdt, che si è finto un profugo georgiano ed ha compiuto il viaggio della speranza dall’Afghanistan all’Australia.

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DA TERRA PROMESSA A TERRA DI DETENZIONE – “La politica australiana nei confronti dell’immigrazione – esordisce Doherty – è molto dura, addirittura si è fatta repressiva più recentemente durante gli anni del governo di Tony Habbott, che da poco ha lasciato l’incarico di Primo Ministro”. La storia di questo paese è, sin dalle origini, caratterizzata dall’arrivo di stranieri. Dapprima è stata colonia degli Inglesi, che, per primi, sono subentrati agli aborigeni, poi nel Novecento si sono susseguite diverse ondate immigratorie: dalla prima generazione di boat people negli anni ‘ 70 a un secondo arrivo negli anni ‘ 90: tutti fenomeni, in un certo senso, improvvisi e difficili da gestire.

“Il governo, sia sotto l’amministrazione laburista che conservatrice – spiega Doherty – dapprima ha affrontato come obbligo il problema e poi ha via via ha irrigidito la posizione fino a divenire l’unico paese democratico che detiene i profughi al loro arrivo”. I campi detenzione, spesso in isole periferiche che sopravvivono economicamente solo grazie agli aiuti australiani, sono una realtà molto complessa e scomoda, dove vengono perpetrate molte violenze anche su donne e su minori . Doherty in particolare ha studiato la retorica del linguaggio usato dal governo, che fa uso di termini bellici, “ militarizzando ” la risposta australiana.

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LA FOTO DI AYLAN HA ROTTO IL MURO DELL’INDIFFERENZA – “Ma la retorica va oltre – continua Sparrow – c’è ordine di non fare foto e di non citare mai i nomi dei rifugiati per disumanizzare la massa e per non creare empatia. I rifugiati sono in zone rurali ed inaccessibili: non hanno voce. Solo la foto di Aylan anche in Australia ha rotto questo muro, ha dato un volto a questa massa di persone e ha scosso fortemente le coscienze dell’opinione pubblica”. Che ha vacillato, anche se non troppo, con la pubblicazione di Sogno di una guardia di Sam Wallman nel 2013, un fumetto giornalistico che ha dato voce al mondo della detenzione offshore. “Per evitare riconoscimenti ed identificazioni- rivela l’artista australiano – ho cambiato molti dettagli, però è stato importante perché ci si è abituati all’idea che la massa degli immigrati è composta da persone e non è una massa informe ed indistinta, lontana da noi”.

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DA KABUL A CHRISTMAS ISLAND: LA ROTTA DEI MIGRANTI NEL PACIFICO – “In Australia la paura dell’altro è nel Dna, da sempre e si può ben riassumere nello slogan di successo, Stop the boat, spiega Wallman. Più che affrontare direttamente in campagna elettorale l’argomento, però i partiti politici si presentano, ciascuno con le sue peculiarità, come gli unici capaci di salvare i posti di lavoro e di proteggere la popolazione da “ invasioni “, anche se il numero dei rifugiati è ridicolo, in confronto alle cifre europee. Uno di questi rifugiati è stato il fotografo olandese Joel van Houdt, che fingendosi un profugo georgiano nel settembre 2013, è riuscito a comprare un biglietto aereo da Kabul finendo in un enorme palazzo di calcestruzzo “dove – racconta – c’erano famiglie soprattutto iraniane in attesa anche da anni di poter attraversare il Pacifico. Dal momento che in quei paesi il sistema bancario è informale, tutto procede sottobanco e non c’è né rimane traccia”. Da Giakarta poi van Houdt è riuscito ad imbarcarsi lunga la rotta più semplice e più breve – tre giorni e tre notti – fino a Christmas Island: da lì però anziché in Australia si finisce nei centri di detenzione off shore e per i rifugiati comincia un percorso difficilissimo nei centri di detenzione.

“Per quanto l’ Europa sia in una situazione più complessa e difficile – conclude Doherty – almeno sembra esserci nella maggior parte dei paesi una volontà politica. Viceversa l’Australia, pur con l’ambizione di avere un mini-impero, non è riuscita ad intessere una rete di relazioni efficaci nel Sud–Est asiatico. L’ Asian è un ‘organizzazione debole: solo attraverso una politica di condivisione si possono affrontare e risolvere i problemi.”

 

Alessandra Pavan

7 ottobre 2015

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