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Annalisa Monfreda, ”Esistono tanti tipi di violenza sulle donne”

Quando si parla di violenza sulle donne, la maggior parte di noi si sente fortunata, pensa di averla scampata, si sintonizza sulla frequenza “emergenza sociale” e si dissocia da ciò che ascolta...

Quando si parla di violenza sulle donne, la maggior parte di noi si sente fortunata, pensa di averla scampata, si sintonizza sulla frequenza “emergenza sociale” e si dissocia da ciò che ascolta, permette alla cronaca di suonare i tasti superficiali della pietà, mai quelli profondi dell’identificazione.

Poi leggi queste testimonianze che arrivano dagli abissi di intimità violate e capisci che forse nessuna di noi ne è veramente immune. Perché esistono tanti tipi di violenza sulle donne.

C’è la Violenza degli Uomini, che solo a volte (anche se troppo spesso) si materializza con uno schiaffo, un braccio spezzato, una costola rotta. Nella maggior parte dei casi ti ferisce senza colpirti, con le armi del disprezzo o dell’indifferenza. “Mi soffochi, la sfiducia verso di me ti consuma, ti affatica, ti confonde. (…) Forze distruttive di dominano, gelosia, fretta, impulsività irrefrenabile. (…) Solo l’amore ti può guarire ma non ce la faccio ad andare avanti in questo modo” scrive Claudia Vazzoler ne “ Lo schiaffo”.

C’è la Violenza della Crisi, che prima ti toglie il posto di lavoro poi la speranza di trovarne uno, come racconta Alina Rizzi ne “Le pantofole rosa”. E all’improvviso, quello spazio di libertà che avevi, cerchi di colmarlo con altre finte libertà: un corso di meditazione, una ricetta speciale, l’illusione di essere una mamma presente. E intanto ti scolleghi da te stessa.

C’è la Violenza dei Desideri. “In una donna i sogni, i miraggi, i desideri ingannano sempre i sensi”, dice Giuseppe Vella in “Grazie per l’ospitalità”. E forse ha ragione. Perché è il desiderio di essere amate che ci fa scambiare per amore quello che amore non è. È il desiderio di una maternità risarcitoria dell’essere nata in una famiglia sgangherata che ci fa incontrare solo uomini-bambini, uomini-non-cresciuti, che padri non potranno mai esserlo (“I bambini di Betta”, di Marina Rizzello). I desideri sono una lente deformata che si ostina a non vedere ciò che l’istinto e la razionalità ci indicano da tempo.

Eppure tutte queste violenze hanno una radice comune. Tutte fioriscono in quell’angusto spazio tra l’immagine di donna che introiettiamo fin da bambine e la donna che siamo o che vorremmo essere. La società, la famiglia, la scuola, l’ingenua frase di un marito (“Ma tesoro, non hai bisogno di lavorare”), forse persino la biologia, tutto contribuisce a costruire un identikit di donna col quale prima o poi dobbiamo fare i conti. Tutte, anche le più libere ed emancipate di noi, tutte prima o poi viviamo lo scontro tra ciò che gli altri si aspettano e ciò che abbiamo voglia di fare.

Eppure questa violenza non fa male solo alle donne che ne sono vittima, ma anche e soprattutto a chi la agisce. Il branco che si accanisce sulla giovane protagonista di “Amore violato”, di Camilla Ruggero, regala alla ragazza la forza di riprendere in mano la propria dignità, mentre consuma irreparabilmente chi ha bisogno della conferma del branco per sapere di essere, per esistere.

La violenza spesso le donne non la riconoscono, non la vedono, non hanno il coraggio di raccontarla. Eppure quando quel coraggio arriva, tutto cambia.

“Fu la scrittura… A farle prendere consapevolezza dei suoi sentimenti fu la pratica di scrivere nel diario. Prima non l’aveva mai fatto, le era sembrato un infantilismo. Ora invece era divenuta una pratica quotidiana, una disciplina necessaria”, scrive Camilla Ruggero in “Amore violato”.

Questa sembra essere la via d’uscita per tutte. Scrivere per dare un nome alle cose. Scrivere per condividerle e in questo modo uscirne.

Annalisa Monfreda

25 novembre 2014

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