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Alessandro D’Avenia, ”Gli eroi oggi sono quelli che lavorano senza scorciatoie, raccomandazioni, furberie”

'Sono stanco della retorica antimafia, che ha fatto cattiva memoria ai Falcone, ai Borsellino e ai Puglisi. Li abbiamo spinti talmente in alto che non significano più nulla nel quotidiano.' Parole forti ma condivisibili quelle di Alessandro D'Avenia...

Nell’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, c’è un ragazzo, Federico, che si troverà a fare una scelta davvero difficile. Quella di partire portandosi con sé il ricordo di una Palermo paradisiaca, oppure rimanere e affrontare le tenebre di questa città che lui nemmeno immaginava potessero esistere…

 

MILANO – ‘Sono stanco della retorica antimafia, che ha fatto cattiva memoria ai Falcone, ai Borsellino e ai Puglisi. Li abbiamo spinti talmente in alto che non significano più nulla nel quotidiano.’ Parole forti ma condivisibili quelle di Alessandro D’Avenia, il prof-scrittore in libreria con la sua ultima opera ‘Ciò che inferno non è‘, un omaggio alla figura di Don Pino Puglisi, ucciso da un killer di mafia il 15 settembre del 1993 e beatificato nel 2013. Tutto il romanzo è il tentativo di scoprire attraverso e con i personaggi quale sia il modo di far durare e dare spazio a ciò che inferno non è. E non è forse quello di cui abbiamo bisogno oggi più che mai. Un libro scritto, come ammesso dallo stesso autore, ‘perchè stavo perdendo la speranza’. Il suo successo? Non il numero delle copie vendute in libreria, ma consiste nel fare con amore, ovvero mettendoci cuore e testa, studio e impegno, fatica e lavoro quotidiani, ciò che si fa.

C’è un sorriso in apertura del suo ultimo libro “Ciò che inferno non è”. Un sorriso che ha una grande importanza. Ce lo racconta?

Era il professore del mio liceo. I miei fratelli lo hanno avuto come insegnante, io solo come supplente. Lo incontravo in corridoio: all’intervallo amava sostare lì, per essere disponibile alle domande, alle chiacchiere con i ragazzi. Ricordo il sorriso tranquillo, anche se stanco per il gran lavoro che portava avanti. Un sorriso che veniva da lontano, non dalla città degli uomini, ma da quella di Dio. Un sorriso che diceva, in carne e ossa, che la tua vita era sacra: ci si poteva solo gioire entrando in contatto con essa. Al contrario di molti insegnanti che disprezzano i loro allievi, anche solo nel modo di guardarli. Un’unica immagine che ha generato il romanzo: il sorriso all’assassino che sta per sparargli. Volevo capire se si trattasse di facile agiografia postuma, o di realtà. L’assassino quando diventò collaboratore di giustizia confessò che non dormiva la notte per quel sorriso, ed era uno dei criminali della mafia tra i più efferati.

 

Lei racconta della difficile scelta che Federico, il ragazzo protagonista del libro, si trova a dover prendere: stare dalla parte giusto oppure dalla parte sbagliata?  Senza anticipare quello che ne sarà di Federico, possiamo dire che purtroppo molti giovani, e non solo nel quartiere Brancaccio da lei descritto, si trovano dalla parte del male. Perché secondo lei? Cosa non funziona nella società di oggi?

Sono stanco della retorica antimafia, che ha fatto cattiva memoria ai Falcone, ai Borsellino e ai Puglisi. Li abbiamo spinti talmente in alto che non significano più nulla nel quotidiano. Falcone e Borsellino erano ottimi magistrati. Puglisi era un ottimo prete e insegnante. Era gente che faceva bene il proprio lavoro, come servizio, a qualunque costo. Gli eroi oggi sono quelli che lavorano così, ciascuno al suo livello, senza scorciatoie, raccomandazioni, furberie, e tutto quello che purtroppo ha sfigurato la bellezza del nostro Paese. Federico esce dalla sua beata inconsapevolezza di adolescente dalla vedute troppo corte e scopre finalmente che la vita è fatta non per consumare oggetti, ma per essere spesa per ideali grandi. Lo vedo in classe: i ragazzi si ripiegano su se stessi se non offriamo loro un progetto di vita, qualcosa per cui valga la pena giocarsela. Si spengono per mancanza di testimoni. Insegnare e scrivere sono il mio modo di fare politica, nel senso dei Greci antichi: partecipare alla vita della polis ciascuno al suo livello, dando il meglio che si può in ciò che ci riesce di far bene. Un insegnante che mortifica uno studente, fa pettegolezzi o legge il giornale in classe anziché far lezione contribuisce ad una mentalità “criminale”. Chi fa bene il proprio lavoro di insegnante invece combatte la criminalità. Questo vale ad ogni livello. Una ragazza mi ha scritto dopo aver letto il libro che ha deciso di iscriversi a Giurisprudenza e fare il magistrato, come lo erano Falcone e Borsellino: scrivere un libro è combattere contro la criminalità. E non mi dite che si tratta di idealismo, perché a forza di calpestarli gli ideali grandi, li abbiamo persi.

 

Il suo libro è anche un omaggio a Don Pino Puglisi, che tanto ha fatto peri ragazzi e che lei ha avuto la fortuna di conoscere personalmente. Che persona era? Cosa le ha insegnato? E, soprattutto, essendo lei un professore, quali degli insegnamenti di Don Puglisi continua a diffondere ai suoi ragazzi?

Per il “come”della mia vita. Il sacrificio di 3P per me non è la sua morte, ma il suo modo di vivere: sacrum facere vuol dire rendere sacro. Lui riceveva come sacro, rendeva sacro, rispettava il sacro che trovava in ogni cosa e persona e cercava di proteggerlo, farlo crescere, difenderlo. Lo faceva con i bambini e i ragazzi di un quartiere infernale. Insegnare è servire le vite che hai di fronte non controllarle. Oggi il potere si mostra come controllo o come paternalismo, invece il potere è servizio. Questo vale per la scuola, vale per la scrittura di un libro e per ogni gesto lungo la giornata. Il titolo del romanzo, ispirato ad un passo di Italo Calvino, nel libro che amo di più di questo autore, condensa tutto. Alla fine delle Città Invisibili Marco Polo cerca di confortare il Kublai che ha appena fatto la sua amara considerazione sul fatto che ogni città umana, per quanto bella, finisce in un inferno. Polo gli dice che ci sono due modi per affrontare l’inferno, uno è farne talmente parte da non vederlo più, l’altro  faticoso e da apprendere ogni giorno è scorgere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio. Da qui il titolo Ciò che inferno non è: tutto il romanzo è il tentativo di scoprire attraverso e con i personaggi quale sia il modo di far durare e dare spazio a ciò che inferno non è. E non è forse quello di cui abbiamo bisogno oggi più che mai?

 

Palermo non è solo una location dove lei ha ambientato il suo ultimo libro, ma è una dei protagonisti. Una città bellissima, che però nasconde un lato scuro. Ci sveli il resto della medaglia…

Sono di Palermo. È una città paradossale: di luce e lutto, di paradiso in una via e inferno girato l’angolo. È uno dei personaggi del romanzo e determina tutti gli altri come un fato incombente. Come nel cinema noir degli anni 50, in cui l’uso del campo lungo sugli ambienti determinava i sentimenti del personaggio, che ne era parte integrante, e venivano messi a fuoco sia il personaggio sia l’ambiente come se fossero tutt’uno: luce e tenebra erano parte del personaggio. Il romanzo è un atto d’amore verso Palermo, ma di quell’amore che Borsellino definiva così: “Non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Metto a fuoco Palermo nei dettagli, perché è Palermo che ha messo a fuoco la mia anima e i miei personaggi. Tutto il romanzo è un canto d’amore e disamore alla città, in cui scorgo il paradosso reale e simbolico di essere per essenza: tutto porto e quindi spasimo. Il Genio di Palermo, rappresentato con un serpente che si nutre al suo petto, porta scritto il terribile e tragico motto della città : Palermo, conca d’ora, nutre gli stranieri e divora i suoi. Una città che accoglie nella sua dolcezza e respinge chi ci è nato. Luce e lutto, paradiso in una via e inferno girato l’angolo.

 

Lei affronta molti temi importanti, tra cui quello della mafia, vista però dalla parte dei giovani. Ragazzi che essendo magari cronologicamente distanti a importanti fatti di cronaca che hanno fatto la storia di Palermo e non solo,  non riescono a comprendere fino in fondo. Qual è l’obiettivo del suo libro? E che potere hanno i libri sui giovani secondo lei?

Ho scritto questo libro perché stavo perdendo la speranza. Non volevo scriverlo, ma sono stato costretto. Era scritto nella mia carne. Ho vissuto i fatti in prima persona, nell’estate del 1993. Padre Puglisi era il professore di religione del mio liceo: all’inizio del quarto anno non è tornato in classe perché il 15 settembre gli avevano sparato. Nella mia vita quel giorno è uno spartiacque. Avevo 16 anni e i miei occhi erano ancora chiusi come quelli dei bambini neonati. Quel fatto mi aiutò a mettere a fuoco l’anima e la realtà. Decisi di diventare insegnante grazie al mio docente di lettere e grazie a don Pino. Il primo mi fece vedere il cosa, il secondo il come. Con il passare degli anni il debito di gratitudine si è trasformato in memoria viva: era una storia che raccontavo a voce. Poi ho ricevuto il premio Puglisi per l’impegno verso i giovani, a partire dai miei libri, incontri con i ragazzi e l’insegnamento. Era come se don Pino mi pedinasse e mi ricordasse qualcosa. La storia dalla carne doveva passare alla carta, per poi ritornare alla carne dei lettori. In un momento storico come il nostro, pieno di cinismo e disperazione, ho capito che quella storia che aveva aperto gli occhi a me, poteva fare altrettanto con altri. Una storia, che nella tragedia dà altrettanta speranza, è il segreto per questi tempi. Lo dice il poeta Milosz nel recente volume pubblicato da Adelphi “La testimonianza della poesia”: lo scrittore se non sperasse non scriverebbe neanche una pagina e fare memoria è proprio il modo in cui lo scrittore spera, memoria che non è semplice ricordo, ma speranza in atto nel presente. Proprio la speranza di cui abbiamo bisogno tutti in questo momento storico mi ha fatto scrivere questo libro, che non volevo scrivere proprio per mancanza di speranza. Chi avrà il coraggio di leggerlo, ne uscirà trasformato. Se non è così, vi rimborso la spesa. Questo danno i miei libri a qualsiasi lettore, non solo i ragazzi: il coraggio della speranza anche in mezzo alle tenebre del dolore, dell’abbandono, della violenza, della morte. L’amore è pià grande di tutte queste cose.

Scrive un successo letterario dietro l’altro. Dopo “Ciò che inferno non è” cosa ci dobbiamo aspettare?

Per me il successo è fare con amore (cuore e testa, studio e impegno, fatica e lavoro quotidiani) tutto. Il resto se viene tanto meglio. Quando finisco un libro e sono contento, quando finisco una lezione e sono contento, quando incontro un alunno e sono contento… questi sono i miei successi. Gli applausi finiscono in fretta e non te li porti nella tomba.

 

9 gennaio 2015

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