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Marco Franzoso, “Attraverso il dolore scopriamo chi siamo”

A Bookcity 2018 Marco Franzoso ha presentato "L'innocente" il suo nuovo romanzo uscito con Mondadori. Lo abbiamo intervistato per chiedergli di più

MILANO – A Bookcity 2018 Marco Franzoso ha presentato “L’innocente” il suo nuovo romanzo uscito con Mondadori. La storia racconta di Matteo, un ragazzo di dieci anni costretto ad affrontare sfide dolorose, troppo dolorose per un animo di bambino. La perdita del padre, una madre in difficoltà a sostenere il peso della famiglia, un mondo di adulti incapaci di capirlo, e, infine, un trauma indicibile che lui stesso non riesce ad esprimere.

Ne “L’innocente” così come in tanti altri tuoi romanzi affronti tematiche legate alla famiglia, alle sofferenze e ai rapporti che si sviluppano all’interno dei piccoli nuclei familiari. Come mai questa tendenza?

«La famiglia è il nucleo più piccolo, la struttura atomica di base della nostra società, e cercare di capire com’è una famiglia significa capire cosa siamo diventati. Dal punto di vista della scrittura, invece, mi permette di trovare un modo per esasperare le tensioni: la famiglia ti permette  di essere come un chimico che mette nella provetta dei composti e vede cosa ne esce. Perché la contiguità spaziale e temporale permette di andare in profondità su ciò che è la verità della relazione e della persona. Questa è la risposta da scrittore. Poi io sono anche innamorato della famiglia. A me piace lavorare dentro una famiglia, mi piace avere a che fare con i bambini nella vita, e mi piace l’idea di raccontare la grandiosità che si nasconde molto spesso dentro un bambino. Raccontare la loro vitalità ed esuberanza credo sia una missione e una poetica».

Chi è l’innocente di cui parla il titolo? Tutti i personaggi sono in qualche modo legati alla dinamica colpa/innocenza.

A me piace pensare che tutti in questo romanzo siano innocenti, perché non c’è una colpa per dolo, ma per l’incapacità di porsi in ascolto nei confronti di Matteo. Tutti hanno buone intenzioni, tutti pensano di essere nel giusto. Io credo che il tema centrale di questo romanzo sia l’ascolto. La violenza, in questo romanzo, sta nella difficoltà per questo bambino di essere ascoltato per come è, di essere guardato per come è. Ogni persona che lui incontra porta verso di lui se stessa. Non c’è reale ascolto, non c’è reale comunicazione e apertura da parte degli adulti, non perché non vogliano ma perché c’è un’incapacità radicale degli adulti nel porsi in una posizione di apertura nei confronti dell’altro. Dunque, sono tutti innocenti per buona fede ma non basta.

Che cosa ha voluto dire per te scrivere questo libro?

Questo libro è stato un vero percorso durato otto anni.  L’ho riscritto decine di volte finché non ho capito che io stavo scrivendo Matteo come io stesso lo vedevo, stavo commettendo l’errore dei protagonisti del libro. Dovevo abbassare le difese e ascoltarlo. Nel momento in cui l’ho fatto ho iniziato a scriverlo. Per me la cosa più bella della scrittura, della stesura di una storia, è il percorso che ogni libro mi costringe a fare per avvicinarmi al suo cuore.

In un mondo di adulti così distanti, cosa permette a Matteo di andare avanti?

Ho scritto questo romanzo per salvare Matteo. Io gli volevo bene e volevo salvarlo. E in un certo senso è un romanzo di formazione, in cui c’è una discesa verso gli inferi e un ritorno, per capire che il dolore non necessariamente schiaccia ma può essere occasione per crescere e migliorarci. Matteo passa da una visione quasi mitica del mondo e delle persone a una visione più reale: capisce l’ambivalenza della vita, capisce anche lui che non esistono solo il bianco e il nero, ma che ci sono i grigi e, soprattutto, i colori. Capisce che padre e madre sono persone vere, passando attraverso la consapevolezza del dolore. Il male, quindi, è un passaggio formativo, può non essere qualcosa che schiaccia. Entrare dentro il male e dentro il dolore ci può permettere di conoscere di più noi stessi.

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