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Filippo Renda, “l’artista deve continuare a creare, qualsiasi siano le condizioni contingenti”

Il regista e attore ci ha parlato del suo lavoro e de "Il mercante di Venezia", in scena a Milano

MILANO – Abbiamo intervistato Filippo Renda, un giovane regista teatrale che ci parla del suo lavoro, del teatro e del suo primo spettacolo da regista: Il mercante di Venezia di Shakespere, in scena a Milano fino a domani.

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– Come nasce questa versione del Mercante di Venezia?

Nasce dal desiderio di misurarsi con Shakespeare partendo da uno dei suoi testi più “regolari”. Nasce dall’osservazione del presente, sia a livello locale che globale. Ma soprattutto nasce dalla fedeltà alle mie ossessioni. Ogni opera è prima di tutto un lavoro con e contro se stessi, non esiste l’opera oggettiva, si mette in scena sempre un’auto narrazione. Il titolo è solo un pretesto, è solo un punto di partenza utile a dare inizio ad un moto centripeto. Sicuramente, poi, una delle fonti di ispirazione è stata “Buena Vista Social Club” di Win Wenders, che mostra benissimo la potenzialità corruttibile di una società progettata per rimanere pura. Nella mia trasposizione Cuba sta a New York come Belmonte sta a Venezia.

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–  Reinterpretare Shakespeare oggi, perché “rivoluzionare” un classico?

Perché la potenza di un classico è  proprio di mantenere la propria forza di fronte a qualsiasi stravolgimento, quindi perché trattarlo con deferenza. Sarebbe come sfidare Mike Tyson preoccupandosi di non fargli del male. Se lo sfidiamo è perché desideriamo metterlo a tappeto. Io ho sfidato il campione dei pesi massimi del teatro mondiale cercando di dargli un ko.

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–  La cosa più facile e quella più difficile durante la realizzazione dello spettacolo?

La cosa più facile sarebbe usare dei trucchi, affidarsi alla convenzione, al “di solito si fa così”. In questo spettacolo abbiamo deciso di farne a meno. Di conseguenza è stato tutto molto difficile, anzi molto complesso, ma proprio per questo molto esaltante. Se dovessi scegliere una difficoltà che mi ha particolarmente destabilizzato direi quella di mantenersi sempre sicuro di sé di fronte a tutta la troupe anche nei momenti di totale oblio.

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– Come cambia l’approccio al teatro da parte di un attore rispetto a un regista?

L’attore deve pensare a “fare”, quando è in scena deve completamente dimenticarsi del progetto ed “essere in diretta”. Deve essere una calamita per il pubblico e sfruttare le parole dell’autore in maniera molto egoistica. Il teatro, per un attore, è un imbuto sul proprio sé. Il lavoro del regista parte molto prima. In questo caso per esempio, ho cominciato a lavorare con un anno d’anticipo.
Il regista deve occuparsi di tutto. Deve essere aggiornato sulla parte produttiva, deve progettare quella estetica in dialogo con scenografo, costumista, disegnatore luci. Deve progettare il suono, sia dal punto di vista musicale che effettistico. Deve coordinare il lavoro con gli attori. E molto, molto altro. È un lavoro esasperante che può reggersi solo se basato su una grande passione/ossessione. È un approccio molto piu stratificato e strategico. Che però non deve schiacciare l’autorialitá dell’opera: bisogna rassegnarsi a una certa schizofrenia

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– Qual è la situazione attuale del teatro italiano? Considerando magri il punto di vista di un giovane regista

Abbastanza disastrosa. I problemi sono capillari e molto difficili da risolvere. Il teatro italiano non è morto, è in coma profondo da parecchio tempo. Per fortuna ci sono delle realtà che riescono ad averne una gestione sana. Credo pero che un giovane artista non debba occuparsene. L’artista deve continuare a creare, qualsiasi siano le condizioni contingenti. Anzi credo che uno dei problemi sia proprio che molti artisti si occupano di aspetti strutturali di cui, per forza di cose, non hanno le giuste competenze. È come se Messi si occupasse della gestione della propria squadra. Messi deve pensare ad allenarsi e a fare magie sul campo, non ai business plan.

 

L.A.

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