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Alluvione di Firenze, il racconto di chi l’ha vissuto sulla propria pelle

Ricordiamo il coraggio dei fiorentini che si sono visti violentare la propria terra 50 anni fa attraverso il racconto dell’allora corrispondente da Firenze del Corriere dello Sport, Marcello Giannini

MILANO – Cinquant’anni fa, il 4 novembre 1966, la terribile alluvione colpì la città di Firenze costò la vita a 35 persone e danneggiò gravemente il patrimonio culturale e artistico della città. Vogliamo ricordare quel tragico avvenimento e sottolineare il coraggio e l’orgoglio dei fiorentini che si sono visti violentare la propria terra da questo cataclisma naturale attraverso il racconto di quegli attimi dettato a braccio dall’allora corrispondente da Firenze del Corriere dello Sport, Marcello Giannini. Riportiamo di seguito il suo intervento, tratto da #BlogNotes di Massimo Basile.

 

“Caro Direttore, ho ricevuto il tuo appello. E, a braccio, forse, irrazionalmente, ti butto giù per mezzo degli stenografi, queste poche cose. Le prime dal giorno in cui il buio, la fame, la sete, il freddo, la paura hanno stretto in una morsa uomini e cose in questa bella città, tanto più bella quanto più irriconoscibile. E allora posso appena dirti ciò che mi è passato davanti agli occhi e confessarti di aver avuto paura: una paura tenuta dentro, nascosta, come del resto ha fatto tutta la città. E molto meglio di me.

A Firenze, come mi diceva poco fa il Sindaco, la gente quando uno sta per morire non dice che “muore” ma che “non sta bene”. E’ forse per questo che la gente, tirata giù dal letto, svegliata nel sonno di soprassalto con l’acqua in casa alta già un metro, non ha gridato, non ha perduto la testa. Ancora non si sa quanto siano i morti; ma sicuramente sono pochi (non è una crudeltà) rispetto a quelli che avrebbero potuto essere se la città avesse perduto la testa.

L’Arno aveva rotto, si dice, alle 5. Ma c’è gente che a quell’ora aveva già l’acqua in casa alta un metro.
Lo stadio è deserto. Le porte del Battistero, le porte d’oro, hanno perso sei delle loro preziose e paradisiache formelle. La Biblioteca comunale è devastata. Gli scantinati degli Uffizi anche. Lo stesso le Cappelle Medicee.

Riprendo il discorso della rottura dell’Arno: alle 3 in punto vidi il Sindaco di Firenze. Piangeva. Non è retorica: erano lacrime vere nel suo volto disfatto. Sgomento nel suo volto, raccapriccio, incredulità. Io leggevo queste cose nel suo. Lui leggeva le stesse nel mio.
È una città che non ha più un negozio, una strada, uno scantinato. Ho visto grossi automezzi rotolare come fuscelli sotto i miei occhi: intorno al Duomo, un vortice d’acqua che ha invasa la cattedrale. Un fiume impazzito per ogni strada.

E ora? Ora, alla paura che ciascuno di noi ha tenuto repressa, è subentrata, anche nella protesta, la rassegnazione. Ma una rassegnazione a maniche rimboccate. Allo stadio ci sono i militari. Sotto le tribune le provviste. Nei prati del campo di Marte, la centrale degli elicotteri che partono senza soste verso le zone allagate alla periferia della città e della provincia. Ho visto il presidente Baglini: piangeva come tutti. Stamane tornava con un carico di acqua e di altri generi che ha messo a disposizione della prefettura e dell’ospedalino Mayer. Chiappella, con i suoi ragazzi, con Hamrin, con Brugnera, insomma con tutta la Fiorentina, che era andata allo stadio per allenarsi, si era messa a caricare e a scaricare il materiale di soccorso. Una notizia aveva portato dolore e raccapriccio: i trottatori delle Cascine. Centottanta erano morti. Così fu detto. Ma era successo invece il miracolo: prima che l’acqua giungesse all’ippodromo, i fantini, i proprietari, i volontari, avevano portato via i cavalli. Così la cifra è diminuita: mi dicono che, purtroppo, una quarantina di trottatori sono annegati.

Non so se sono riuscito a dire quello che tu volevi, quello che ti aspettavi. Ma c’è un momento in cui la stanchezza prevale anche se la volontà la respinge. Gli occhi bruciano, la gola duole, la voce si affievolisce, le gambe non reggono. Eppure, bisogna resistere.
Ora ci sono le notizie del bene, come le chiamo io, quelle che dicono degli aiuti che gli altri danno, che vanno nel rione di piazza Gavinana. Nel rione di Gastone Nencini. Uno dei più colpiti della città. Oppure in San Frediano, il vecchio cuore di Firenze che l’alluvione non ha fatto smettere di battere. Notizie che parlano di operai di altre parte venuti a portare flaconi di sangue, sterilizzatori, acqua.

E i vigili urbani. Corrono, guazzano come grandi maratoneti nel fango di questa smisurata tragedia. Molti fanno parte della Canottieri dipendenti comunali e, come vedi, c’è subito un appiglio che si aggancia allo sport: e ti dico allora che la Canottieri Firenze, che la Rari Nantes Florentia, non esistono più. Caverne come occhiaie in uno scheletro al posto delle loro sedi. Occhiaie piene di fango.

Ora, l’Arno, questa bestia beffarda che ha avuto un momento di follia cattiva, si è ritirato. In alcuni tratti è un rigagnolo col senso ironico di un’estate asciutta. Sopra, sopra di essa, i cenni della sua immensa follia; ed è qui che i fiorentini lottano, ed è qui che la città cerca di scuotersi via la fanghiglia, il freddo, la fame, la sete. Torna l’energia elettrica e con essa il calore di una lampada. Arriva, a quintali, il pane dalle altre città dove i fornai fanno a gara a sfornarne di più e di meglio. Arriva tutto questo: eppure sai che ti dico: vorrei tanto domenica prossima andare allo stadio. A vedere una partita di calcio, ma a vederla come la vedemmo le domeniche passate. E allora ci si guarda, l’un con l’altro, e inconsapevolmente e in silenzio ci si chiede: ma è vero tutto questo? E subito vien voglia di chiudere gli occhi per rivedere questa nostra città così com’era il 3 novembre. Ed è questo, credimi sinceramente, che io vorrei mostrarti appena verrai qui dai tuoi amici”.

Marcello Giannini

Corriere dello Sport, mercoledì 9 novembre 1966

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