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Violetta Bellocchio, “In Italia dobbiamo recuperare il senso di comunità”

La scrittrice torna in libreria con "La festa nera", un romanzo post-apocalittico in cui la scrittrice affronta i temi brucianti del presente

MILANO – “Spero che in Italia ci sia non tanto un recupero dei valori umani, che nessuno ha veramente perso di vista, ma che ci sia un recupero di un senso di comunità, basato su ciò che le persone effettivamente desiderano e sanno fare, e non sull’autocelebrazione.” E’ questa l’opinione di Violetta Bellocchio, autrice del libro “La festa nera“, un romanzo post-apocalittico in cui la scrittrice affronta i temi brucianti del presente.

 

Cos è la “festa nera” di cui si parla nel libro?

E’ la prima volta che un mio libro arriva in libreria con un titolo che è farina del mio sacco. Pensavo moltissimo ad un’atmosfera di lavoro, un rapporto spaventosamente intenso tra persone abituate a fare causa comune contro tutto e tutti. Mi sono ispirata ad un brano del 1986 dei Depeche Mode che si chiamava “Black Celebration” e che ad un certo punto diceva “facciamo un’altra festa nera al termine di una giornata nera”. Una giornata nera si può intendere in tanti modi: in maniera negativa, ma anche nel senso di “non in rosso” e quindi nera in termini di bilanci. E’ un titolo elegante.

 

In quale dei tre protagonisti ti senti più rappresentata?

Le persone pensano che io sia Misha Fontana, ma non è vero assolutamente. Misha è una creatura che si è manifestata due anni prima che iniziassi a scrivere il libro, a cui però non riuscivo a far fare niente. Quando ho iniziato a scrivere il libro, ho pensato a lei. Mi interessava mettere un personaggio come quello di Misha al centro della storia: una persona che ha un’identità soltanto quando lavora, costretta ad adattarsi ad essere tante cose insieme. E’ vero, comunque, che ci sono stati dei momenti della scrittura in cui Misha era una lunga “gag” sugli aspetti più stupidi della mia personalità: quando non sapevo cosa farle fare, immaginavo cosa avrei fatto io al posto suo. In generale, in tutti i personaggi del libro emerge una parte di me.

 

Realtà o fiction: cosa ti ha più ispirato maggiormente per la stesura di questo romanzo post-apocalittico?

La realtà mi ha decisamente ispirato, per come se l’è vista cambiare sotto gli occhi una persona molto ferrata in materia di genere prima di misurarcisi in prima persona. Sono nata dentro la cultura horror ed apocalittica, mi ha plasmato, anche se non immaginavo che sarebbe diventata reale. I luoghi del libro sono veri, li ho “riabitati” io. Un po’ come nello stile di “Black Mirror”.

 

Data la situazione attuale dell’Italia, come te l’immagini tra 10 anni? Quanto diversa da ciò che racconti nel libro?

Mi auguro sia molto diversa. Spero che ci sia non tanto un recupero dei valori umani, che nessuno ha veramente perso di vista, ma che ci sia un recupero di un senso di comunità, basato su ciò che le persone effettivamente desiderano e sanno fare, e non sull’autocelebrazione. Negli ultimi mesi vedo che per ragioni diverse sempre più scrittori e artisti, ma anche librai e persone comuni stanno parlando tra di loro in grande libertà, cosa che prima non succedeva. Ciascuno deve sapere fare molto di più nel suo ambito.

 

Possiamo definire il tuo libro un’opera di denuncia? Pensi che la letteratura italiana oggi proponga abbastanza contributi volti a riflettere sulla società attuale e sulle sue possibili evoluzioni?

Il mio non è un libro di denuncia, altrimenti avrei scritto un saggio. Gli unici libri e film da cui io accetto un discorso duro sulla politica e sulla società sono quelli di genere. Ci sono contributi, ma vengono fatti sempre agli stessi che hanno esaurito la benzina. Per fortuna, l’Italia è piena di scrittori under 30 molto bravi, più maturi e competenti rispetto ai coetanei della generazione precedente. Occorre dare loro il giusto spazio, anche pubblicando libri acerbi a discapito di ciò che può sembrare più commerciale, che non sempre poi viene premiato nelle vendite.

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