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Steve Della Casa, “Ecco i retroscena della camorra oggi”

"Acido fenico. Ballata per Mimmo Carunchio, camorrista", una graphic novel che racconta la vita del camorrista Mimmo Carunchio. Ecco l'intervista a Steve Della Casa

MILANO – Cosa succede se Giancarlo De Cataldo mette a disposizione un testo teatrale, se Steve Della Casa decide di sceneggiarlo avendo come unica conoscenza del mestiere le interviste lette su come lavoravano a “Tex Willer” Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini e se un giovanissimo Giordano Saviotti – molto bravo con le matite – si mette a disegnare la storia? Succede che questa “allegra brigata” dà vita a “Acido fenico. Ballata per Mimmo Carunchio, camorrista” (Einaudi 2016), una graphic novel nella quale il protagonista Mimmo Carunchio racconta a un giudice la sua vita, illustrando le malate ragioni che lo hanno fatto diventare un camorrista. Abbiamo intervistato Steve Della Casa, autore dello Storyboard. Ecco cosa ci ha raccontato.

“Acido fenico” racconta una storia di tradimenti, racconta di un male che sembra necessario. Come hai fatto tua questa storia?

Mi affascina un mondo in cui i valori sono basici e cioè: se tu mi fai un torto devi pagare, se sei mio amico sono pronto a tutto per te e così via. Credo che questo sia il fascino indelebile del mondo della malavita per chi non ne fa parte.

Però “Unione e cultura avrebbero fatto la differenza”, dice a un certo punto Cataldo Picchieri. Le cose stanno come dice Picchieri?

Lui rappresenta il proletario che cerca una via di uscita collettiva, che ovviamente è molto più giusta dal punto di vista sociale ma molto meno affascinante dal punto di vista narrativo. Avrebbero fatto la differenza, certo: ma non per Carunchio.

Una storia, questa di “Acido fenico”, che parla anche della difficoltà di trovare un proprio posto nel mondo. Come vivono questa problematica i protagonisti e come la vivi tu?

Io per quanto mi riguarda sono molto soddisfatto della mia vita e un posto me lo sono trovato, non ho mai avuto il dubbio di non trovarlo. Ma io sono un privilegiato, loro no.

Nella prefazione scrivi che hai prodotti un storyboard molto artigianale e ti definisci “un critico cinematografico che di solito si diverte a fare ciò che non sa fare”. Ci puoi raccontare come hai lavorato? Quali sono stato le difficoltà? La tua estraneità al campo ti ha lasciato libero, in qualche modo, di non essere accademico?

Ho lavorato sulla falsariga di come ho letto che lavoravano i creatori di Tex, lo scrittore Bonelli e il disegnatore Galleppini. L’ho fatto con incoscienza felice. Non credo sia accademico il risultato, e forse non è neanche un buon risultato, ma ho provato quel “piacere del testo” descritto da Roland Barthes. La difficoltà consisteva nel fatto che non doveva essere un “solipsismo” autoriale, spero di averlo evitato.

Quanto cinema c’è in “Acido fenico”?

Tanto. Nelle facce, e non solo Cassel e Bronson, ma anche Nazzari e Nello Pazzafini, uno dei grandi stuntmen del “menamose” di Cinecittà. E poi l’idea di “rise and fall of a gangster”, tipica dei film Warner anni Trenta. Erano immagini e situazioni che mi galleggiavano nella mente quando scrivevo. Ho cercato di fare come Tarantino: se uno vuole e sa, apprezza le citazioni, ma se uno non le conosce deve essere nelle condizioni di divertirsi lo stesso.

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