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Simona Vinci ci svela le “prime verità” della follia

Dopo otto anni di gestazione con "La prima verità" è nella cinquina finalista del Premio Campiello 2016

MILANO – Simona Vinci con il suo ultimo romanzo svela le prime verità della follia. Dopo otto anni di gestazione, con La prima verità, è per la terza volta, nella cinquina finalista del Premio Campiello 2016. L’autrice di In tutti i sensi come l’amore torna a sviscerare l’indicibile, a scoprire cosa c’è oltre il buio della mente e della nostra società. Uno sguardo indagatore e uno stile inconfondibile per non chiudere gli occhi perché “Il potere decide chi è scomodo e fastidioso e in ogni epoca e in ogni luogo trova il modo di isolarlo e renderlo inoffensivo: lager, manicomi, prigioni, muri, a volte non servono neanche queste cose, è sufficiente, come scrivo nel libro, trovare modi per disgregare il tessuto sociale alimentando rancore, rabbia, odio e paura”.

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Come nasce La prima verità?

Nasce tanto tempo fa, ancora prima di quando comincia la sua stesura e ancora prima del pensiero – prima inconscio poi consapevole – di scriverlo: nell’infanzia. Ma certo il punto di partenza concreto dal punto di vista della scrittura e il periodo che coincide con l’uscita del romanzo che ho pubblicato prima di questo, il mio penultimo, Strada Provinciale Tre, la storia di una donna che per tutta la durata del romanzo non si sa di preciso da dove venga e dove stia andando. Ho cominciato ad interessarmi di disagio psichico e poi psichiatrico e in un forum di psichiatria ho “incontrato” la storia del manicomio di Leros e ho deciso che volevo raccontarla.

 

Il titolo del romanzo è un omaggio a Ghiannis Ritsos ma ha rivelato che il personaggio di Stefanos si discosta in realtà da lui, anzi onora un altro artista. Ci possiamo aspettare un libro sul celebre poeta greco?

Assolutamente no, mi sono permessa di utilizzare, romanzandole, alcune delle vicende reali del grande poeta Ghiannis Ritsos (il suo confino sull’isola di Leros nel 1968, vicende della sua famiglia) ma non sono una biografa. L’omaggio è doppio perché il nome Stefanos viene dal nome dell’amico carissimo Stefano Tassinari, scrittore, giornalista, intellettuale ed attivista culturale che ha sempre mantenuto altissimo, nel suo lavoro l’impegno civile attraverso la letteratura e la poesia, sue e di altri.

 

Quale personaggio sente più vicino?

Quello di Angela, la giovane ricercatrice dell’Archivio delle anime, forse perché anche scrivere storie è farsi detective.

 

Pazzi e dissidenti, questi i protagonisti, a Leros, ma non solo, c’è un filo molto stretto che lega queste due “categorie” ugualmente considerate emarginate e visionarie?

Il potere decide chi è scomodo e fastidioso e in ogni epoca e in ogni luogo trova il modo di isolarlo e renderlo inoffensivo: lager, manicomi, prigioni, muri, a volte non servono neanche queste cose, è sufficiente, come scrivo nel libro, trovare modi per disgregare il tessuto sociale alimentando rancore, rabbia, odio e paura.

 

Infine i migranti, ad allungare il filo conduttore, l’ennesima epopea, il libro intende sensibilizzare maggiormente le persone su queste tematiche che sono più vicine fra loro di quanto si pensi?

Non l’ho fatto consapevolmente in verità, la vicenda dei migranti si lega a quella di Leros e del suo istituto da pochi anni; che sull’isola è stato allestito un hot spot per profughi provenienti in maggioranza da Siria e Iraq l’ho scoperto quando il romanzo era ormai terminato, mi ha addolorata, ma non mi sono stupita più di tanto: un luogo che è già stato utilizzato per isolare e contenere potrà esserlo di nuovo, per questo bisogna stare molto molto attenti. Sempre.

 

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