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Raffaella Silvestri, “Ecco come noi giovani dovremmo affrontare la crisi”

È tornata in libreria Raffaella Silvestri con il suo secondo romanzo, "La fragilità delle certezze" (Garzanti). Ecco l'intervista all'autrice

MILANO – Passiamo tutta la vita a cercare certezze che ci facciano sopportare la nostra fragilità senza accorgerci che in realtà le tanto agognate certezze sono più fragili di noi. Ma allora in che modo possiamo cavarcela? Come facciamo a fare i conti con questa nostra innata debolezza? Di questo e molto altro parla Raffaella Silvestri nel suo secondo romanzo, “La fragilità delle certezze” (Garzanti), che esce a tre anni dal suo esordio, “La distanza da Helsinki” (Bompiani). Articolato su tre diversi piani temporali, racconta la storia di Anna, una trentenne che si sente sempre fuori posto, e di una generazione che si trova a fare i conti con un mondo al quale nessuno l’aveva preparata. Abbiamo incontrato l’autrice. Ecco cosa ci ha raccontato.

Leggendo si ha l’impressione che da un dialogo, da una scena minima, da un movimento o da un piccolo gesto cerchi di tirare fuori tutti sottintesi, di esplicitarne le potenzialità. È così? Come lavori alla scrittura?

Sì, è proprio così. Lo stile personale sta nello sguardo di chi scrive e il mio sguardo è molto verticale, molto profondo. Quando scrivo è come se si aprisse una finestra e io guardassi tutto quello che c’è nella stanza oltre la finestra che si è aperta. Passo dal dettaglio all’impressione generale. È sempre un gioco di dettaglio/campo lungo, usando una brutta e usurata metafora cinematografica. Mi è venuto spontaneo aprire delle finestre, fare delle domande e rispondere al capitolo dopo, giocando con i capitoli brevi e i diversi piani temporali.

Parliamo di Anna. Si trova fare i conti con una situazione problematica…

Anna è una trentenne che cerca di fare del suo meglio con quello che si trova tra le mani, ovvero una crisi economica che inizia molto prima del 2009. I personaggi del romanzo sono cresciuti con le certezze che sono nel titolo, in una società che bene o male procede e una economia che cresce. Ma quello che era più importante è che crescevano i nostri valori: i nostri genitori ci promettevano che se avessimo studiato e lavorato duramente saremmo diventati migliori di loro.

Perché quella era la loro esperienza.

Sì, quella era la loro esperienza. Loro hanno avuto la vita più facile rispetto a noi. Loro lavoravano duramente e avevano dei risultati proporzionali. Noi, per la prima volta, ci siamo ritrovati a lavorare altrettanto duramente ma non abbiamo avuto indietro quella certezza che ci avevano promesso. Da questa situazione di difficoltà faccio muovere questi personaggi, facendoli un po’ arrabattare. Nelle prime pagine Anna dà vita a una start-up con un suo amico di infanzia, che si chiama Marcello ed è un ingegnere e un cervello in fuga. Questo dei cervelli in fuga è uno dei temi che tocco non perché dovevo ma perché fanno parte della nostra esperienza, fanno parte di quello che abbiamo vissuto. Anna e Marcello creano una start-up di consulenza finanziaria innovativa, che non ha più l’arroganza della finanza pre-crisi, ma propone una finanza che vuole essere etica. Poi incontra Teo, proveniente da un backgroung completamente diverso, che lavorerà anche lui alla startup. Questi tre trentenni cercano di cavarsela tutti in modi diversi. Li ho messi insieme per vedere cosa sarebbe successo.

A proposito di Marcello, a questo personaggio hai riservato una parte di te, ovvero la passione per il viaggio. Ti sei un po’ sparpagliata?

In effetti ci sono delle cose di me in diversi personaggi. Marcello è uno che ha subito voglia di andare via e questo è un tratto ci accomuna. Già dal liceo pensavo chissà cosa ci fosse all’estero, lontano, altrove. Mi perdevo un po’ in questo mito dell’altrove. Marcello va infatti via a vent’anni a fare l’università in America, perché è molto dotato, è uno di quelli bravi che come spesso accade nella vita reale finiscono per andare via perché attratti da borse di studio e da altre condizioni favorevoli. È davvero molto difficile per queste persone non andarsene. Quindi va in America a studiare ingegneria però decide di tornare, e questa è un’altra cosa che ci accomuna, perché è quello che ho fatto anch’io, dopo aver vissuto tre anni all’estero.

Nella tua biografia c’è scritto solo che hai scritto un altro romanzo e che hai vissuto in altri luoghi, per chiarire quanto sia importante per te questo aspetto della tua vita. 

Sì, è molto importante. In pochissimo spazio ho dovuto selezionare e una delle cose che ritenevo fondamentali era il mio attaccamento ai luoghi, che è la cosa che più mi caratterizza. Ho potuto raccontare Milano soltanto perché me ne sono andata, perché ho cominciato ad amare molto il posto in cui sono nata nel momento in cui me ne sono andata via. Il fatto che io sia andata lontano è ciò che mi ha permesso di entrare tanto nella città. C’è un’aderenza totale tra Milano e i personaggi di questo libro: se li togli da Milano non sono più loro. D’altra parte mi sembra che Milano sia rappresentativa di quello che succede in tutta Italia, anche se poi succede in tempi e modi differenti. Se vuoi vedere dove sta andando il nostro paese basta guardare Milano.

Milano, tra le altre cose, è una città che ormai raccoglie tanto potere e il potere è una delle tante tematiche che hai affrontato in questo romanzo. A questo proposito mi ha fatto molto pensare un passo del romanzo in cui scrivi che “il potere oggi si misura soprattutto nel privilegio di non apparire”.

Mi affascina molto il tema del potere, le dinamiche, le relazioni. In fondo, il potere è qualcosa che esiste solo se c’è una relazione tra le persone. Ho messo così a confronto dei personaggi che vengono da ceti sociali diversi. Tra l’altro, i ceti sociali ci sono ancora, anche se sembra non se ne possa più parlare. Anzi, la polarità è più estrema oggi che ieri. In tempi di sviluppo economico c’era mobilità sociale, c’erano i famosi figli degli operai che diventavano medici. Oggi c’è sempre la possibilità teorica che questo accada ma poi, se guardiamo alle persone lontane dai centri in cui ci sono gli ultimi posti di lavoro di questo paese, è raro che questo succeda.

Due generazioni cadono, una si rialza. Abbiamo speranza insomma?

Secondo me sì. Alla fine questo non è un libro sul precariato perché a me del precariato non interessa nulla. Abbiamo preso tutti atto che è precario, chi più chi meno, anche chi ha un posto fisso. Questo è un libro su quello che succede dopo. Abbiamo preso atto che c’è in corso una crisi di valori, che è diffusa una sorta di incomunicabilità. Ma stiamo reagendo, stiamo comunque facendo qualcosa e non poteva che essere così. Non potevamo rimanere immobili per sempre. Siamo restati immobili per un po’, ci siamo anche lamentati a lungo, ma adesso secondo me c’è una specie di rimbalzo, ci sono persone che si inventano dei lavori nuovi, persone che vanno avanti con la loro vita, che comprano case, fanno figli, persone che in qualche modo ce la fanno, anche senza il lavoro fisso.

È questa la direzione giusta?

Sì, credo che sia questa. Dobbiamo prendere atto di quello che abbiamo e andare oltre. Dobbiamo lamentarci di meno e ribellarci di più, e in parte già lo stiamo facendo. Secondo me c’è un germe di speranza, di positività, e la possibilità di vivere in maniera più sostenibile e autentica. Non abbiamo le certezze che ci avevano promesso i nostri genitori, ma quelle certezze che ci avrebbero anche inchiodato a una vita di dentisti, di ingegneri forzati. Oggi siamo costretti a esseri liberi, in una sorta di libertà forzata.

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