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L’ultimo incantesimo (una Fiaba) – di Stefano Testa

Ai tempi in cui la nostra valle, aspra e diffidente, era ancora popolata dalla stirpe degli uomini scuri, bassi e tarchiati che, vestiti di tele di sacco, scendevano lungo i sentieri sassosi dei castagneti curvi sotto il peso delle fascine, sul crinale della Serra, in un casolare di pietra grigia eternamente battuto dai venti molesti discendenti dal Monte Cavallo, viveva un vecchio mago di nome Amato. Non era un chiaroveggente di successo come Martino, il negromante che esercitava giù a Porretta, il cui studio era frequentato da ricchi bottegai e da ragazze di buona famiglia, sempre in cerca di fatture in grado di eliminare fastidiose concorrenze o di pozioni per far innamorare il figlio del conte. Lui prestava i suoi servigi ai zotici abitanti della valle del Randaragna, miserabili agricoltori di una terra avara e calastrosa, che crescevano a polenta e farina di castagno e pagavano il suo lavoro in uova d’oca, formaggi di pecora o legna da ardere. Lo chiamavano quando una mucca dimagriva senza motivi apparenti, oppure per cercare una sorgente nascosta alla quale poter fare abbeverare le bestie al pascolo. Sapeva togliere il malocchio e talvolta riusciva, con un unguento da lui creato, a guarire la consunzione nei bambini. Amato abitava da solo, insieme ad un vecchio asinello bianco dalla camminata incerta, con il manto folto e morbido e l’iride celeste, di nome Elia, dono del suo antico maestro di magia, il celebre mago Aristeo di Capugnano.

***

Un giorno, fu chiamato improvvisamente alla Vetica. Un vecchio aveva bussato a lungo al suo portone e lui, oramai quasi sordo, aveva tardato a sentirlo, preso com’era da un esperimento che lo appassionava e che da molto tempo ormai, inutilmente, andava tentando. Il bifolco, con fare concitato, gli disse con parole alquanto confuse che c’era un vitello nato ormai da due giorni, giù nella stalla di Gildo, che non ne voleva sapere di poppare il latte dalla madre, che se lo teneva un po’ in bocca e poi, privo di qualsiasi stimolo, lo risputava. La famiglia del contadino era precipitata nella disperazione più nera perché se la bestia fosse morta non avrebbero potuto rispettare l’impegno preso con Orfeo, il macellaio del conte, che aveva promesso loro, in cambio del vitello, i baiocchi necessari per la festa di nozze della loro unica figlia. Amato si alzò dal tavolo brontolando e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo all’alambicco che sul tavolo ribolliva fumante, si gettò il mantello infeltrito sulle spalle e, seguito dall’asino Elia, s’incamminò dietro il villano. Entrò nella stalla che era già buio. La famiglia al completo sedeva sulla paglia alla luce debole di alcune candele di sego e, in silenzio, guardava verso il vitello che muto li osservava, accosciato nella sua posta, ai piedi della madre. Quando vide il mago, Gildo gli si fece incontro pulendosi la mano sui pantaloni prima di tendergliela. Amato, dopo aver accennato ad un goffo inchino alla segaligna e giallastra moglie di lui, toltosi la cappa con gesto risoluto e affidatala ad un marmocchio che, incuriosito, gli si era avvicinato, si pose di fronte al vitello scrutandolo con attenzione. L’animale, a sua volta, ottuso e perplesso, lo fissava. Con il pollice della mano destra chiusa a pugno gli marcò sulla fronte il segno della croce, sussurrando ripetutamente con voce profonda la sua formula magica:
“celeriter kontagionem domo…”

Gildo affibbiò prontamente uno scappellotto al moccioso che, a quelle parole, aveva accennato a una risata inopportuna. Nella stalla, ora, regnava il silenzio assoluto. A un certo punto, il mago fece cenno al contadino e al vecchio bifolco di porsi ai lati del vitello, di afferrarlo per le gambe posteriori e di sollevarlo a testa in giù. I due obbedirono prontamente, mentre il lattone prese a muggire disperatamente.
“egregie te defendo ab morbis…”
urlò Amato, battendo con quanta forza aveva in corpo sulla schiena dell’animale.

Dalla sua bocca, improvvisamente, uscì un imponente rigurgito di giallo liquido amniotico. Finalmente libero da quella segreta oppressione, il vitello si attaccò senza indugio alla tetta della madre, cominciando a poppare avidamente. Un’esclamazione d’intrattenuto stupore e di repentina felicità uscì allora dalla bocca dei presenti che, festanti, si fecero tutti intorno ad Amato per ringraziarlo di quella sua nuova impresa. Per festeggiarlo lo sospinsero in casa, lo fecero sedere al loro desco e lo rimpinzarono di crescente e patolle gonfie di ricotta e miele. Quasi si ubriacarono con il vino aspro e opaco del loro piccolo vigneto. Poi, quando oramai era già notte, lo salutarono, non prima di avergli donato due grasse galline ovaiole. Amato, sfinito e contento, si incamminò verso casa, con l’asinello Elia che pacifico lo seguiva portando sul dorso il sacco con i due polli.
Il cielo di novembre era freddo e stellato e la luna piena, benigna, illuminava il sentiero. Giunto nei pressi dello stagno ai piedi della salita che portava alla Serra, il vecchio mago si ricordò che gli necessitavano delle salamandre per quel suo esperimento, per cui si avvicinò allo specchio d’acqua, sicuro di trovarne qualcuna sotto i sassi della riva. Ne aveva appena catturate un paio frugando tra i ciottoli quando la sua attenzione fu attirata da qualcosa che, sotto un cespuglio di ginestre, si muoveva debolmente ed emetteva uno strano lamento. Si avvicinò e, alla luce della torcia, vide che si trattava di una giovane volpe. Aveva il ventre squarciato da una lunga ferita e, con la lingua fuori dalla bocca spalancata, cercava disperatamente l’aria. Amato, senza pensarci su, si tolse la cappa e gliela avvolse attorno al corpo, la sollevò con delicatezza e la caricò sul basto dell’asinello che, paziente, lo stava aspettando immobile sul bordo dello stagno.
– che ne faremo di questa creaturella, caro Elia? In ogni caso, non potevamo certo lasciarla qui, a tirar le cuoia sola soletta sotto questa magnifica luna lontana…non trovi? Sorrise e, dopo un profondo sospiro, riprese il cammino verso casa.

***

In pochi giorni la giovane volpe tornò a nuova vita, curata amorosamente da Amato che, con i suoi miracolosi infusi di iperico, piantaggine e ricino, riuscì con maestria a far cicatrizzare l’ orribile ferita. Restava tutto il giorno stesa sulla vecchia ottomana rossa accanto al camino, ammaliata dal miracolo insospettabile di quella vampa luminosa e calda, seguendo con gli occhi grati ogni movimento del suo benefattore, sempre indaffarato nei suoi consueti esperimenti. Quanto a lui, passava ore e ore curvo in piedi davanti al tavolo a consultare i suoi vecchi libri impolverati, scorrendo con l’indice teso le formule magiche e gli ingredienti delle pozioni che potessero essere utili alla sua ormai annosa ricerca. Ogni tanto, aggiungeva qualcosa dentro l’alambicco fumante nel quale ribolliva il suo misterioso infuso e, scostando con un gesto della mano i lunghi capelli bianchi che gli scendevano continuamente sul viso, stava a spiare con attenzione le variazioni che intervenivano nel suo preparato. Quella sera, fece un balzo indietro dopo che ebbe gettato nel recipiente due code di salamandra. Il liquido aveva mutato colore e, borbottando rumorosamente, aveva preso a far fuoriuscire un vapore azzurrognolo che con il suo strano profumo dolciastro aveva presto riempito di sé tutta la stanza. Aprì la finestra e versò in una tazza la parte della pozione che fuoriusciva con impeto dal beccuccio dell’apparecchio poi, sfinito, si lasciò cadere sulla poltrona sprofondando in un sonno pesante, vegliato come sempre dal silenzioso asinello Elia. Appena sveglio, la mattina seguente, Amato si avvicinò al camino e si chinò per ravvivare le braci con l’attizzatoio. Mentre cercava di separare i tizzoni dalla cenere morta per potervi aggiungere sopra un ciocco di quercia e far così rinascere la fiamma, come era suo solito si volse verso l’ottomana per salutare con un sorriso e un complimento la sua giovane volpe. Grande fu il suo stupore quando vide che sul sofà stava dormendo una ragazzetta esile dalla carnagione candida e con i lunghi, mossi capelli fulvi che scendevano a coprirle le spalle e il busto.

I suoi lineamenti erano perfetti: il taglio lungo e le ciglia arricciate degli occhi socchiusi, il naso sottile, il movimento impercettibile delle narici che, placide, respiravano, la bocca sottile appena dischiusa in un sorriso fiducioso. Sul suo ventre dorato splendeva, lucida, una lunga cicatrice. Accanto alla turca, sul pavimento, la tazza vuota nella quale la sera prima Amato aveva versato la sua pozione. Il mago restò immobile a guardarla per un tempo indefinito e nel suo cuore si mescolavano la meraviglia, il turbamento e una strana angoscia. Alla fine, la giovane aprì gli occhi e gli sorrise con meravigliosa innocenza e lui, commosso, sentì il suo petto agitarsi, scosso da un pianto silenzioso e irrefrenabile.

***
I tempi che seguirono furono memorabili nella vita di Amato. Ogni giorno dedicava molte ore all’educazione di Gaia che, per parte sua, apprendeva tutto con una stupefacente facilità. Ben presto fu in grado di leggere e scrivere e, lieta e scrupolosa, prese a curare l’amministrazione domestica con insuperabile oculatezza. Tutto procedeva felicemente: ogni mattina, insieme al fedele asinello Elia, accompagnava il mago nei campi a raccogliere le erbe necessarie alla composizione delle sue pozioni, degli infusi e dei decotti commissionatigli dalla sua povera clientela. Poi, dopo aver desinato insieme nella cucina portata da Gaia a nuovo splendore, quando Amato si ritirava nella sala al tavolo degli esperimenti lei, sull’ottomana color della porpora accanto al camino, stava a guardarlo filando la lana su un vecchio fuso di legno. La loro perfetta intimità abbisognava di scarse parole e i giorni trascorrevano lietamente, tutti uguali e luminosi come le perle di una semplice, preziosa collana. Il mago, tuttavia, ben presto andò capendo che quella vita non sarebbe potuta continuare per sempre, che Gaia avrebbe dovuto godere appieno la ricchezza delle possibilità che la vita, benevola, offre ad ogni creatura pensante. Fu così che si risolse, non senza dolore, ad affidare la giovane alle cure di Isolina, una assennata vedova già in età, abitante al Poggio delle Capanne e dama di compagnia, favorita della contessa Ranuzzi. Gaia si sottomise con docilità al volere del suo benefattore e ben presto si affezionò a quella donna, così energica e dotta delle cose del mondo e tuttavia tanto affettuosa e sensibile. In sua compagnia, prese a frequentare Porretta, a recarsi al mercato ogni sabato mattina, ad entrare nelle botteghe per scegliere le stoffe pregiate provenienti dal vicino Gran Ducato di Toscana con le quali hllmcuciva i nuovi abiti di cui quella sua nuova vita necessitava. Ogni sera, quando aveva riposto sul comodino il libro che la sua educatrice le aveva amorosamente procurato, dopo che aveva soffiato sulla fiammella della candela e si era rimboccata le coltri per trattenere il tepore nel letto invernale, volgeva per un attimo lo sguardo verso i vetri appannati per riuscire a scorgere, lassù sulla Serra, quella luce sempre accesa, per provare a immaginarsi il mago curvo sul tavolo degli esperimenti ed Elia, silenzioso, vegliante alle sue spalle. Amato, ogni domenica mattina scendeva a Porretta e, lasciato legato l’asinello a un tiglio del sagrato, entrava in Santa Maria Maddalena, accostandosi ad una delle colonne in fondo alla chiesa. Se ne stava lì per tutto il tempo della santa messa a guardare ammirato e commosso quella giovane bellissima e dai modi riservati che, seduta nel banco davanti all’altare, ascoltava assorta le parole dell’omelia dell’arciprete. Non riusciva a capacitarsi, il vecchio mago, di quell’incantesimo a lungo tentato inutilmente e poi compiutosi quasi per caso, mentre lui, ignaro, stava dormendo. Ora, il frutto inatteso dei suoi lunghi studi era lì, a pochi passi da lui, il respiro le gonfiava il petto e la sua nuova anima era pronta a raccogliere tutte le meravigliose occasioni che il mondo, generoso, avrebbe offerto a quella sua limpida, infantile innocenza.

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La notizia, come un lampo a ciel sereno, passò velocemente di bocca in bocca per tutta la Valle del Reno. Ne cianciavano i bifolchi nelle osterie, le villane rubizze tra i banchi del mercato, le agghindate mogli dei bottegai nelle veglie serali attorno al camino: il figlio del conte, conquistato dalla sua purezza semplice, si era innamorato della bella protetta di Isolina, e, nonostante la ferma contrarietà di suo padre, intendeva sposarla. Amato ne fu informato dalla vecchia amica che, grassa e imbacuccata nella mantella nera delle grandi occasioni, era salita fino alla Serra per portargli, affannata, il lieto annuncio. Il vecchio, incredulo, era restato muto e solo dopo che ella, dopo averlo abbracciato, se ne era tornata al Poggio, turbato si era sciolto in un lungo, silenzioso pianto.

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Venne maggio, il maggio delle rose e delle devozioni nell’aria tiepida del vespro. Quella domenica Porretta era in festa: la lunga gradinata che portava su, a Santa Maria Maddalena, era un tappeto ininterrotto di petali candidi e profumati e le guardie del conte avevano il loro daffare a tener a bada le bande di mocciosi che, passando sotto le transenne, provavano a sgualcire con i loro piedi scalzi il manto immacolato che soltanto gli sposi e il corteo nuziale doveva calpestare. Le campane suonavano chiare e allegre, e i loro rintocchi oltrepassavano il Reno, ancora vigoroso per via dell’acqua nevosa delle montagne, attraversavano i floridi castagneti curati come giardini, rimbalzavano sulle levigate rocce del Piella e di lì si perdevano lungo la valle ombrosa e schiva del Rio Maggiore. Giunto nella piazza centrale il mago, pressato da ogni lato dal popolo festante, alzandosi sulla punta dei piedi per un attimo riuscì a scorgere la carrozza scoperta con i due giovani che, agitando le mani, salutavano benevolmente la folla che li circondava. Amato non volle salire in chiesa, preferì restare seduto per un po’ sui gradini del Ponte dei Sospiri, dove gli giungevano gli echi cristallini della corale dei bambini della parrocchia che cantavano a cornice della cerimonia. Poi, tenendo Elia per le briglie, s’incamminò lungo la strada della Costa e lentamente si avviò verso casa.

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Alla Serra la vita procedeva come sempre, ma il mago sentiva crescersi dentro una nuova malinconia. L’estate era ormai trascorsa e la nebbia che velava la cima del Granaglione annunciava l’imminente arrivo del lungo inverno appenninico. Amato andava ogni volta dove lo chiamavano e cercava di rendersi utile con la sua arte, tuttavia uno strano senso di inutilità lo assaliva, soprattutto quando la sera, nella casa vuota, si sedeva al tavolo degli esperimenti davanti ai libri polverosi avuti in eredità dal suo antico maestro. Oramai, la ricerca che aveva iniziato Aristide e poi proseguito lui, era conclusa. Il successo, come sempre, era stato frutto della testardaggine e del caso. Una giovane volpe ferita aveva bevuto da una tazza dimenticata sul pavimento e si era mutata in Gaia. Lui, di sua volontà, non le avrebbe di certo somministrato quella pozione: si era troppo affezionato a quella cara bestiola per metterne a repentaglio la salute appena riacquistata con un filtro dagli effetti ignoti e probabilmente pericolosi. Turbato, pensava spesso a quali sarebbero state le conseguenze, nel caso avesse reso nota quella sua magia. Certamente, il suo credito e la sua fama ne avrebbero tratto smisurato giovamento, sarebbe forse stato chiamato alla corte del conte, avrebbe vissuto una vecchiaia colma di riconoscimenti e di onori, avrebbe provato la malia dorata del potere. Ma al vecchio mago, ora, quelle lusinghe apparivano ormai prive di forza e di qualsiasi attrazione. Pensò a lungo all’uso sconsiderato che i potenti, perseguendo i loro scopi, inevitabilmente avrebbero fatto di uomini che erano state bestie, alla mancanza di rispetto che avrebbero avuto per gli uni e per le altre. I tempi, poi, stavano cambiando vorticosamente, un generale francese, sceso dalle Alpi con le sue armate, imperversava nelle pianure del nord portando parole nuove e sconvenienti. Tutto pareva vacillare. L’autorevolezza dei capi soccombeva alla loro mollezza e i popoli si agitavano irrequieti. Lo stesso mago Martino aveva mandato il figlio a studiare giurisprudenza a Bologna e nel suo studio, al posto dei testi di esoterismo e di astrologia, sugli scaffali liberati dagli alambicchi e dai vasi delle piante officinali, da qualche tempo facevano bella mostra di sé gli eleganti volumi dell’ Encyclopédie. “La nuova magia è la Ragione, caro collega…occorrerà prepararsi” gli diceva ogni volta, fregandosi le mani lunghe e sottili con allegra fiducia.

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Amato accarezzò a lungo il cartone grigio e impolverato, gonfio di umidità, che faceva da copertina al libro dove erano annotati e descritti gli esperimenti. Lì dentro c’erano insieme la sua intera vita e quella del mago Aristide che, prima di chiudere gli occhi, glielo aveva voluto donare insieme all’ asinello bianco dall’iride azzurra. Dopo avere afferrato il tomo, si avvicinò al camino e lo lanciò nel fuoco. Elia, al gesto di lui, emise un lungo, disperato raglio, ma il mago non ci fece caso e lo allontanò con un gesto impaziente della mano. Seduto sull’ottomana, con gli occhi fissi alla fiamma, stette a guardare mentre il libro diveniva cenere.

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Il rumore delle ruote di una carrozza sul lastricato dell’aia raggiunse Amato mentre, dietro la casa, stava gettando del granoturco alle galline nel pollaio. Si sporse dallo spigolo sbrecciato del muro e, affacciato al finestrino della berlina, incorniciato dal raso color porpora delle tendine, vide il volto pallido di Gaia. Le si fece incontro con fare timido e impacciato, quasi inciampando nelle falde del mantello troppo lungo. Lei era scesa e, dopo aver ordinato al cocchiere di tornare a riprenderla più tardi, gli si era avvicinata, tendendogli affettuosamente le mani. Gli parve esangue e sofferente, con gli occhi esageratamente grandi e lucidi. La invitò in casa con un inchino e la fece accomodare sulla vecchia ottomana, accanto al camino acceso. Commossi, si guardarono a lungo in silenzio. Alla fine, con voce sottile e incerta, lei parlò.
– Tu che non mi fosti genitore e poi, per due volte, mi divenisti padre, la prima quando mi sottraesti a quella dolce, sconosciuta sfinitezza che mi colse lì allo stagno, sotto la ginestra lunare, e dopo, quando divenni Gaia, nel sonno misterioso qui sul sofà, ti prego, ascoltami. Io non voglio esser più quel che il tuo incantesimo mi fece divenire. Provai l’ebbrezza, da principio, del vostro ragionare, del discernere sicuro delle cause e degli effetti, della vostra potestà sulle creature e sulle cose. Il prezzo del dominio, tuttavia, è per me troppo gravoso e mi toglie il fiato e la letizia. Io non sapevo della morte e ora la so, conosco adesso la segreta malinconia del dover tutti morire, patisco la vostra agitazione figlia di pensieri diversi e contrastanti, l’esser contenta ed ad un tempo triste. Io ero volpe, per natura innocente, ed ora son solo donna che anela angosciosamente alla intangibile bontà. Mi sento soffocare dalla oscura ambiguità delle parole e rimpiango il mio silenzio sereno di creatura. Un tempo, quando mi specchiavo nell’acqua trasparente dello stagno, non era me che io vedevo, ma solo il cielo e le fronde degli ontani, ed io ero loro, e loro erano me. Ora, invece, guardo la contessa madre scrutarsi con ansia nello specchio disgiungente, in cerca della ruga che il vostro tempo le marca sul viso e la fa triste. Non mi confà la vostra natura strana, il vostro esser così superbi e separati, la vostra infelicità sdegnosa ed arrogante. Te ne prego, dunque, due volte padre mio affettuoso, fammi tornar volpe, te lo chiede implorando la Gaia tua, dal profondo del suo cuore.
Si era inginocchiata davanti a lui e i singhiozzi le scuotevano violentemente il petto. Implorante, tese le braccia verso il vecchio che, con gli occhi pieni di lacrime, la aveva ascoltata in silenzio e, affranto, non riusciva a sostenerne lo sguardo febbrile.
– Tra poco la carrozza mi ricondurrà al palazzo del conte, ma stanotte, non vista, salirò di nuovo qui, camminando da sola sulla strada della Costa. Tu, allora, benigno, mi offrirai nella tazza la pozione ed io tornerò finalmente quello che ero.

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Restato solo, Amato precipitò in un guazzabuglio di pensieri e non sapeva che fare. Misurava la stanza a larghi passi inquieti, scuotendo sconsolatamente la testa canuta e agitando al cielo le braccia ossute. L’asinello Elia, immobile al centro della sala, seguiva quel suo domestico vagare con occhi pazienti e addolorati. Con un gesto risoluto, il mago si sedette al tavolo e, su un foglio di antica pergamena, iniziò a scrivere. Provò a stilare l’elenco degli elementi necessari alla preparazione dell’infuso per l’incantesimo, la cui formula era finita bruciata dentro il libro degli esperimenti, tra le fiamme del camino. Sapeva che la pozione capace di invertire una magia era composta dai medesimi ingredienti dell’originale, ma posti nell’alambicco in ordine inverso. Miracolosamente, riuscì a ripescare negli angoli della memoria le sostanze e le dosi esatte ma, purtroppo, non era in grado in nessun modo di ricordare cosa avesse aggiunto da ultimo, quando il liquido aveva cominciato a bollire furiosamente nel recipiente e, senza quell’elemento, non poteva iniziare la preparazione. Se ne stava lì, immobile e pensoso, in piedi con le braccia appoggiate al tavolo e, di tanto in tanto, si lisciava sopra pensiero la lunga barba bianca. Potevano essere i ciuffi di timo serpillo? No, quelli servivano per favorire le gravidanze nelle capre sterili… il tritato di corna di giovani caprioli, forse? Neppure, quello era l’ingrediente che usava per alleviare il patimento dei mariti traditi…non ricordava e il tempo passava veloce. Disperato, alzò gli occhi al soffitto con le mani giunte, quasi in accorata preghiera, quando una voce a lui sconosciuta alle sue spalle lo fece trasalire:
– Le due code di salamandra…presto, allo stagno!
Si voltò e vide che Elia lo stava guardando, imbarazzato, con i suoi grandi occhi cerulei, scuotendo le orecchie. Amato, senza pensarci su, inforcò il vecchio tricorno di feltro nero e, quasi correndo, si precipitò alla palude, seguito dall’asinello bianco. Ormai era quasi buio e la nebbia, scesa dai monti, velava i campi e i boschi. Un cinghiale attraversò il sentiero davanti a loro, grugnendo. Frugò a lungo tra i sassi della riva e, alla fine, trovò le salamandre. Elia ragliò felice, facendo roteare la coda.

***

Era già sera avanzata quando Gaia bussò alla porta. Il suo volto era pallido e le labbra, esangui, tremavano leggermente. Dal cappuccio della mantella di raso nero spuntavano le ciocche scomposte dei suoi capelli fulvi. Amato, senza parole, la invitò ad entrare con un cenno della mano e lei, senza esitazione, attraversò a passi veloci la stanza e poi, esausta, si abbandonò sull’ottomana color porpora. Guardò, muta, il mago che restava immobile, piantato in mezzo alla sala. Elia ragliò ripetutamente e, con il muso, spinse la tazza fumante ai piedi del sofà. Gaia tese la mano verso il pavimento, la raccolse e, dopo un sorriso che pareva un dolcissimo commiato, bevve. Poi, reclinato il viso contro la spalliera del divano, stette immobile.

***

L’alba entrò con delicatezza a illuminare la stanza, scivolò lungo il tavolo ingombro e fece brillare la bacchetta che portava inciso in oro il nome di Amato, il suo calice d’argento, la doppia lama dell’athame, il pentacolo di rame. Il mago uscì di casa e, ritto in mezzo all’aia, avvolto nel suo frusto mantello nero, aspettò guardando verso la porta che aveva lasciata aperta. La volpe uscì guardinga, seguita da Elia. Si guardò intorno poi, scodinzolando, andò a strusciarsi ripetutamente contro le gambe di lui. Volse per un attimo il suo sguardo vellutato al campo sotto la casa e, più giù, verso il fitto bosco di querce ancora protetto dalla nebbia. Si addentrò rapidamente nell’erba fradicia di rugiada e, prima di scomparire, si girò per un’ultima volta a incontrare gli occhi del suo mago. Elia, tranquillo e risoluto, la seguì.

Stefano Testa

 

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