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L’ultimo hotel e altre poesie, le innumerevoli deviazioni di Jack Kerouac

L'ultimo hotel e altre poesie (titolo originale Pomes All Sizes) è una raccolta di poesie, haiku e appunti buddisti di Jack Kerouac

“L’ultimo hotel e altre poesie” (titolo originale Pomes All Sizes) è una raccolta di poesie, haiku e appunti buddisti che Jean-Louis ‘Jack’ Kerouac, ‘padre della beat generation’, scrisse tra il 1954 e il 1965. Il libro vede la luce soltanto nel 1992 in un’edizione curata dalla City Lights Books con introduzione di Allen Ginsberg, mentre è del 1999 la prima traduzione italiana ad opera di Massimo Bocchiola per Mondadori. Passare in rassegna alcune delle poesie più significative di questa pubblicazione postuma può servire a farsi un’idea, seppur sommaria, della parabola del percorso poetico di Jack Kerouac.

 

L’ultimo hotel e altre poesie è infatti un testo eterogeneo che si dipana con naturalezza e fluidità negli anni e ci presenta un Kerouac sempre in movimento e in continua trasformazione. Per comprendere meglio le idee teorico-compositive alla base di questo e di molti altri testi del mondo beat, – che si tratti di prosa, poesia o puro frammento – vale la pena soffermarsi su alcune righe del saggio di Kerouac Scrivere Bop. “Componi in modo scatenato, indisciplinato, puro – scrive l’autore – evita la ‘selettività d’espressione’ e segui la libera deviazione della mente.” La necessità di essere perpetuamente in movimento anche sul piano fisico la ritroviamo già nel titolo della prima poesia della raccolta, Bus verso est, che lo stesso autore contestualizza come una “Poesia scritta in pullman aprile 1954 da S.F. a New York”.

 

L’attacco è sarcastico e remore di istanze trascendentaliste: “La società ha buone intenzioni La burocrazia è come un’amica […] Ho chiuso con la commedia dell’americano”. La rinuncia a quella che già allora negli USA era una vita votata al consumismo e all’omologazione è alla base di una ricerca del sé che vede nel viaggio così come nella meditazione buddista e nell”uso di LSD delle occasioni uniche di sperimentazione. In Autostoppista abbiamo un’autodescrizione di Kerouac dove si mescolano autoironia e mortificazione: “Boom. È l’atroce impermeabile che mi fa sembrare un autofallito aut- omicida gangster immaginario, un idiota in soprabito pietoso, come fanno a capire i miei bagagli madidi – i bagagli infangati”. In Bowery Blues (NY, 2 marzo 1955), il verso è inframmezzato da una prosa appassionata che tutto ci descrive e tramanda della realtà urbana che circonda l’autore: “Cooper Union Cafeteria – tardo freddo pomeriggio di marzo, la strada (Terza Avenue) è selciata, fredda, derelitta di tracce di carretti – Non so che uomo all’angolo sta agitando la mano in giù No-ando teatralmente a qualcuno […] – Una bionda cicalona con orribile largo sorriso sta producendo la sua chiacchiera bocca labbro verso un vecchio santone Bodhisattva sul marciapiede”. Kerouac registra nel dettaglio tutto ciò che il suo occhio intercetta, dagli edifici alle persone che si muovono in questo scenario desolato e la scrittura è fresca, immediata, spontanea, senza filtri di alcun tipo: un impressionismo ricco di sperimentazione contaminato dalla lingua popolare.

 

Segue “Al risveglio dopo avere sognato Robert Fournier” (Berkeley, 10 ottobre 1955) con cui lo scrittore, nato a Lowell nel Massachusetts da immigrati franco-canadesi, torna alle sue radici. Questa “Lunga poesia in dialetto infantile canadese probabilmente medievale” ci viene infatti presentata in due versioni, inglese e francese: “Om! Amen! Adoration a Tathagata le conaisseur de l’essence universelle de toutes le choses du reve et en dehors du reve.[…] Tire la manivelle Amen Par semaine. A Dieu. Bon Soir”. Il gioco di parole tra “A dieu” e “Adieu”, che meglio si collegherebbe semanticamente a “Bon Soir” fa presupporre che la poesia sia stata prima scritta in francese e poi fedelmente tradotta in inglese. La filosofia orientale che qui fa capolino troverà pieno sbocco negli haiku, in cui riflessioni sulla caducità del mondo si alternano a descrizioni di vita quotidiana che sembrano sospese nello spazio del verso 4 è un ottimo esempio di quest”atmosfera di sospensione: La zuppa non brucerà – I ragni non escono dai lavandini – Prepara dell’altro tè Verrebbe da dire che il tè o la zuppa sono per Kerouac quello che il fiore di loto era per il poeta giapponese.

 

Paradossalmente è proprio l’attenzione data a elementi apparentemente banali che fanno di questi haiku uno spaccato lapidario ma estremamente vivido della vita dell’autore e dei suoi amici. È inoltre interessante notare come Kerouac riesca a conciliare la sua religiosità – una miscela di buddismo e cristianesimo – con la forsennata fame di vita della filosofia beat. In “Come la vedo sulla religione” scrive: “Se Gesù Cristo è figlio di Dio lo sono anch’io […] Buddha è Dio, Padre di Gesù Cristo E DIO È DIO”. Nelle “Illuminazioni”, apparentemente i risultati di meditazioni e riflessioni spirituali ed esistenziali, l’autore rivede il termine ”beat” alla luce della sua aspirazione al Nirvana: Umiltà è Beatitudine. Il buddismo è inoltre rivisitato e personalizzato in pezzi quali “Buddha, Come meditare e la curiosa Poesie dei Buddha di una volta”, in cui ‘Buddy’ introduce Montana Slim, Big Daddy da Baltimora e Raggedy Dan ai concetti chiave della filosofia buddista.

 

Espressioni popolari si mescolano a termini altisonanti conferendo un’atmosfera quasi epica ai versi: “La vita è come un sogno, Credi che sia reale solamente Perché sei nato gonzo Riguardo a quel genere di roba […] Il senso Di tutto sto casino È fermati, siediti E bàlsamati”. Il tentativo di raggiungere la beatitudine sembra però rivelarsi fallimentare e il giocoso stoicismo buddista di Kerouac lascia il posto a un’esasperazione totale in “Solitudine messicana”. Ormai né la scrittura né il viaggio sembrano essere degli anestetici efficaci. “- se scrivo la scrittura è passata – – se muoio il morire è finito – se vivo è appena cominciato – se aspetto l’attesa è più lunga – se vado l’andare è andato”. In “Vino di Skid Row” è l’alcolismo la valvola di sfogo di fronte alla consapevolezza che niente è più importante (Kerouac morirà di cirrosi epatica nel 1969). “Potevo stare ben peggio che seduto ai Bassifondi a bermi del vino Sapendo che alla fine non importa niente”. Eppure, malgrado la disperazione, la vocazione letteraria è sempre presente e primaria e la poesia termina con un’impeccabile dichiarazione di poetica che potrebbe sintetizzare tutto il percorso artistico-letterario dell’autore: “Essere scuro solitario nervottico che guarda il turbinante diamante del mondo ‘Nervottico’, come se tutta la sua persona non fosse altro che un grande occhio che tutto osserva e registra”.

 

L’immagine del diamante è mutuata dal buddismo e appare chiaro come Kerouac rimanga fedele alle sue personali concezioni religiose anche nei momenti peggiori. Ugualmente amara, ma infinitamente laconica è “Donna”, la cui stessa brevità accresce la potenza simbolica: “Una donna è bellissima ma poi ti tocca girare e girare e girare e girare come un fazzoletto al vento”. “L’ultimo hotel e altre poesie” si conclude con “Maledizione al diavolo” (Florida, 31 agosto 1965): “Lucifer Sansfoi […] Srotolerò i tuoi budellacci da Durham a Dover per seppellirli a Clover – I tuoi salmi te li farò intagliare nell’osso dentale […] Pensieri tuoi & lettere Shandygassate intorno in Beth (in gaelico tomba) […] La tua guida a 32 città d”Europa a croste in Isaia […] Diavolo, torna indietro alle rossicce grotte”. Si tratta di una delle composizioni più grandiose e visionarie della raccolta in cui elementi della quotidianità e topografie si affiancano a rimandi biblici, dando vita a immagini inedite e maestose della disfatta del Maligno. In conclusione, “L’ultimo hotel e altre poesie” è un testo che sembra offrire nuovi spunti ogni volta che lo si rilegge e che può essere considerata opera minore solo in termini di fama, in quanto offre una visione a tutto tondo di Jack Kerouac in quanto scrittore, poeta ed essere umano.

Maurizio Brancaleoni

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