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Javier Cercas, “Il passato non è passato, è una dimensione del presente”

Javier Cercas è tornato in Italia per partecipare a Tempo di Libri e presentare il suo ultimo romanzo, "Il sovrano delle ombre" (Guanda)

MILANO – Spesso pensiamo che il passato – e ancora più il passato del nostro Paese – non ci riguardi ma in realtà non è così, come ricorda Javier Cercas. “Viviamo in una sorta di presente mutilato, mutilato dal passato – ci ha raccontato Cercas durante l’intervista – perché non ci rendiamo conto che il passato è una dimensione del presente”. Di questo parla “Il sovrano delle ombre”  (Guanda), l’ultimo romanzo dello scrittore spagnolo, nel quale racconta la storia di Manuel Mena, uno zio di sua madre morto all’età di diciassette anni durante la guerra civile spagnola. Cercas ha partecipato ieri a Tempo di libri (la fiera dell’editoria che si svolge a Milano dal 19 al 23 aprile) in un incontro dal titolo “Sopra eroi e storie”, nel quale ha dialogato con Bruno Arpaia e Marco Belpoliti. Noi lo abbiamo intervistato. Ecco cosa ci ha raccontato.

La quarta di copertina spiega che questo romanzo racconta la storia di Manuel Mena, ma non è esattamente così, perché in realtà le linee narrative sono due, dato che viene raccontata anche la storia di un romanziere che finalmente decide di fare i conti col proprio passato. È corretta la nostra impressione?

Sì, è così. Non a caso, sempre con Guanda, ho pubblicato un libro di conversazioni con Bruno Arpaia intitolato “L’avventura di scrivere romanzi“. Dico sempre che scrivo romanzi d’avventura sull’avventura di scrivere un romanzo. Nei miei libri convivono quasi sempre una storia, spesso legata al passato, e il racconto del processo di creazione della storia, quello che al cinema chiamano il making of. Così, anche nel “Sovrano delle ombre”, ci sono sia la storia di come sono arrivato a scrivere di Manuel Mena, sia la storia di Manuel Mena, che è anche la storia di mia mamma, della guerra, del piccolo paesino, e anche la mia.

Due sono infatti i narratori.

Sì, c’è uno storico – che non sono io -, un narratore che ho inventato per poter raccontare questa storia nella forma più precisa e più complessa possibile, senza fare ricorso alla fantasia e all’invenzione, una vicenda perfettamente realistica. Poi c’è l’altro narratore che si chiama Javier Cercas e che assomiglia molto a me, che racconta come è stata ricostruita la vicenda di Manuel Mena. Racconta del mio viaggio al piccolo paesino, delle mie perplessità, dei miei problemi nell’affrontare questa storia. Il primo non si prende licenze, non inventa nulla. L’altro, invece, è più libero, attribuisce a personaggi parole che non hanno detto. Per esempio, il mio amico David Trueba (scrittore e regista spagnolo, ndr) non ha detto certe cose che ho scritto nel libro. Questo per dire che nel romanzo alcune parti di finzione ci sono. Alcuni miei libri precedenti, come “L’impostore” e “L’anatomia di un istante“, non hanno finzione, ma quest’ultimo sì. Ma quando c’è una piccola finzione in un romanzo senza finzione tutto il romanzo diventa finzione, come una goccia di veleno che si diffonde in un bicchiere d’acqua. Non voglio risparmiare al lettore il racconto del processo creativo perché forse è più importante della storia stessa.

Chi è il vero protagonista del libro?

Il protagonista è Manuel Mena, ma lo è anche mia mamma e lo sono anch’io, il ricercatore, l’uomo che arriva a raccontare alla fine la storia.

Come si relaziona questo libro con “Soldati di Salamina”, romanzo in cui aveva già parlato della guerra civile spagnola?

Nel libro “Soldati di Salamina” c’era una rivendicazione del passato repubblicano spagnolo. Questo libro è un complemento a quel romanzo, perché “Il sovrano delle ombre” non è una rivendicazione ma un’assoluzione, una presa di coscienza del passato mio e del mio paese, perché chi non sa da dove viene non sa dove va. Sarebbe bello avere alle spalle un passato meraviglioso e ricco di libertà, ma purtroppo non è così. Questo è il vero soggetto del libro: non ho voluto parlare soltanto della guerra civile ma dell’eredità della guerra civile e l’eredità di violenza con cui tutti – italiani, tedeschi, americani… – viviamo. Bisogna sapere in che cosa consiste questa eredità. Perché se sai in che cosa consiste, questa eredità si può governare, altrimenti questa eredità governerà te, che è ciò che spesso succede. Da questo punto di vista il libro dialoga con “Soldati di Salamina” ma ancor di più con “L’impostore”, che parlava di un uomo vero, ancora vivo, che si chiama Enric Marco, che ha inventato completamente il suo passato, un passato che ha dipinto eroico, sentimentale e drammatico, per nascondere un passato mediocre, codardo, violento. In fondo, questo è ciò che facciamo tutti, non solo lui, quando ci accorgiamo che il nostro passato è più duro, più violento, più sgradevole di come ce lo aspettavamo. Quello che facciamo, così, è edulcorarlo, mascherarlo, nasconderlo. Quello che io ho voluto fare in questo libro è esattamente il contrario.

Un’operazione fatta in nome non soltanto di Javier Cercas ma di una Spagna che fa ancora fatica ad accettare la sua storia.

Sì, assolutamente, ma in realtà sono tutti i Paesi ad avere problemi con il loro passato. Il problema principale è che il passato non è passato, il passato è una dimensione del presente, tutto quel passato di cui ci sono testimonianze, di cui abbiamo memoria. Questo passato non è passato ed è un immenso errore pensare il contrario. Senza quel passato il presente non si spiega. Il problema è che viviamo oggi in una sorta di dittatura del presente, fatta dai mezzi di comunicazione. Per i media già quello che è successo ieri è passato e quello che è successo settimana scorsa è preistoria. Viviamo in una sorta di presente mutilato, perché il passato – insisto – è una dimensione del presente, fa parte del presente. So che è difficile fare i conti col passato ma dobbiamo assumere questa eredità.

Anche a questo serve la letteratura?

Quello che fa la vera letteratura è fare del particolare l’universale. Fare della mia storia tutte le storie. Il mio caso – che è un caso particolare, che non ha molta importanza – deve parlare di tutti i casi. Dipingi il tuo paesino e dipingerai il mondo, dice Tolstoj. Se sei capace di trovare nella tua piccola storia tutto quello che è universale, allora riuscirai a fare letteratura.

“Il sovrano delle ombre” parla anche del desiderio di tornare a casa di tutti gli emigrati, un desiderio irrealizzabile, nonché un tema molto attuale.

La tragedia dell’emigrazione è uno dei temi più importanti del libro. L’emigrazione c’è da sempre, è universale. La gente che parte dalla sua casa non parte perché vuole, ma perché ha bisogno, per ragioni infinitamente diverse. E questa è una tragedia, una vera e fortissima tragedia, perché chi parte mai potrà tornare a casa perché il luogo che considerava tale nel frattempo è cambiato. Si tratta di un tema molto attuale da molto tempo.

Attuale da circa tremila anni.

Sì, perché noi uomini siamo fatti così. Noi siamo migranti: partiamo come ha fatto mia mamma, lasciando il luogo in cui siamo radicati, dove abbiamo tutto, e quando arriviamo in un altro luogo non sappiamo come vivere. Bisogna capire questo per capire qual è veramente la tragedia dei tanti migranti di oggi. Per non capirlo bisogna essere veramente stupidi e crudeli.

L’ultimo grande tema è quello della guerra. Quando descrive gli occhi di Manuel Mena scrive che in quegli occhi si riflette il vuoto di un ragazzo che va a morire.

Questo è un libro bellicosamente antibellicista. Dobbiamo considerare che per fortuna in Europa abbiamo dimenticato cos’è la guerra. La mia è la prima generazione della storia che non ha conosciuto la guerra. Il problema è che quando dimentichiamo gli orrori del passato finiamo per ripeterli. Abbiamo dimenticato, per esempio, che sono i bambini che fanno la guerra. Manuel aveva 17 anni, era un bambino.

Perché in guerra vanno i bambini?

Perché siamo noi adulti a mandarli.

E perché lui voleva andare in guerra?

Mia mamma aveva cinque anni quando Manuel Mena è partito per la guerra e sette quando è morto. Quest’uomo è un eroe, pensava, l’uomo coraggioso che è andato a difendere la famiglia, la religione, la patria, quei valori a cui credevano. Come scrivo nel romanzo, quando mia madre mi ha parlato di questa sua visione, io ho pensato – non l’ho detto perché non ho avuto il coraggio di dirlo – ho pensato che Manuel Mena non è morto per difendere la famiglia ma “per colpa di una banda di figli di puttana che avvelenavano il cervello dei bambini e li mandavano al macello”.

Una guerra che abbiamo sempre idealizzato.

C’è un passo del romanzo in cui David Trueba parla della differenza tra il modo di rappresentare la guerra di Velázquez e quello di Goya. Nel quadro di Velázquez “La resa di Breda”, più conosciuto col titolo “La lance” – uno dei quadri più belli che ho visto nella mia vita -, la guerra è dipinta come un evento straordinario: i vincitori sono generosi, persino i cavalli sono nobili, è un dipinto così affascinante da trasmetterti la voglia di andare a combattere. Manuel Mena, così come tanti altri bambini, sono andati in guerra con questa idea di guerra in testa. Solo che quando poi sono arrivati effettivamente sul campo di battaglia si sono trovati di fronte la guerra di Goya, non quella di Velázquez. Nei suoi dipinti, Goya mostra i disastri della guerra, che è assoluta violenza, una violenza senza senso, abiezione totale. Goya mostra com’è la guerra davvero.

Un’idea di guerra diffusa anche dal fascismo.

Il fascismo prometteva il cielo e dava l’inferno. C’è una frase di Slavoj Žižek, uno filosofo sloveno, che dice che dietro ogni genocidio c’è un poeta, inteso come un giornalista, uno scrittore o un filosofo. Parla di coloro che creano queste ideologie totalizzanti. Oggi è tornato tutto ciò, basta pensare ai leader carismatici che sempre più prendono potere. La gente pensa che sia una novità ma non lo è. La storia si ripete sempre. Il problema sta nell’imparare qualcosa dalla storia. Bernard Shaw diceva che l’unica cosa che si impara dalla storia è che non si impara niente dalla storia. Ripetiamo costantemente gli stessi errori.

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