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Intervista a Daniela Padoan, “Dobbiamo sapere che la nostra cultura ha edificato Auschwitz”

Essere donna durante l'Olocausto: un libro in cui sono raccolte le testimonianze di tre donne sopravvissute ad Auschwitz. Un dialogo per capire veramente la drammaticità della loro vita

MILANO – I testimoni ci aiutano a non dimenticare la drammaticità di quello che è successo. Daniela Padoan in  Come una rana d’inverno intervista tre donne sopravvissute ai campi di concentramento che con le loro parole ci aiutano a capire cosa hanno vissuto e soprattutto quale sia stato il significato di essere una donna durante l’Olocausto. Le donne insieme ai bambini, infatti, hanno rappresentato il 70% dei prigionieri inviati nelle camere a gas. Tra diverse testimonianze di tre diverse donne:Goti Bauer, Giuliana Tedeschi e Liliana Segre, recentemente nominata senatrice a vita.

Perché questo titolo?

Il libro prende non solo il titolo ma la sua stessa ragione d’essere da un passo del comando posto da Primo Levi a introduzione di Se questo è un uomo, quando invita i lettori a interrogarsi su cosa resta dell’umanità di un individuo ridotto a mangiare bucce da un immondezzaio, irriso, reso schiavo, sotto la costante minaccia della camera a gas. Ma poi Levi sposta l’attenzione sulle donne, che ad Auschwitz erano prigioniere in un campo a se stante, quello di Birkenau, di fronte alle strutture dello sterminio, e coglieva una prospettiva diversa, pur nel medesimo abisso: «Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno». Intendeva mostrarci i corpi scheletriti, denudati, rasati, privati di ogni femminilità, di cui ben conosciamo le immagini, ma di cui nessuno ritenne necessario parlare in modo specifico. Le donne, separate dai figli, mandati subito al gas, . e impedite di procreare, poiché gli ebrei, “razza inferiore”, secondo l’ideologia nazista avrebbero dovuto essere cancellati dal mondo

Perché hai deciso di intervistare proprio delle donne?

Tra le persone uccise ad Auschwitz, tra il 60 e il 70 per cento furono donne e bambini. I bambini piccoli venivano tolti alle madri e mandati al gas appena entrati nel campo, poiché gli ebrei – “razza inferiore”, nell’abominio dell’ideologia nazista – avrebbero dovuto essere cancellati dal mondo. I nazisti usarono le prigioniere come cavie per esperimenti sull’apparato riproduttivo, che inducessero la sterilità i nelle donne “non degne di riprodursi” e la possibilità di parti plurigemellari in quelle di “razza ariana”. Al tempo in cui scrissi il libro, era il 2003, l’invisibilità femminile nella storiografia della Shoah era pressoché totale, nei musei, nei memoriali, nei libri di testo, persino nelle testimonianze, dove l’esperienza vissuta dalle donne era appiattita su quella degli uomini.

Nell’introduzione al libro affermi che la Giornata della Memoria si sta banalizzando sempre di più. Puoi spiegarci meglio questo concetto?

É un’istituzione importantissima, che va preservata da rituali che rischiano di svuotarla, proprio mentre il negazionismo avanza in tutta Europa. É di pochi giorni fa la notizia di un raduno a Pordenone di band musicali che inneggiano apertamente all’Olocausto. Perché la memoria non sia un esercizio retorico, occorre sapere che il fascismo ha condotto alle leggi razziali e che è stato direttamente responsabile della deportazione degli ebrei italiani, quando non direttamente del loro sterminio, come fu nella Risiera di San Sabba, a Trieste.

Come pensi che si possa tornare a ricordare, senza banalizzare, quello che è successo?

Dobbiamo sapere che la nostra cultura ha edificato Auschwitz. La nostra cultura è stata capace di dividere gli esseri umani in categorie, renderli schiavi e disporne l’eliminazione industriale. Non è stato un momento di follia, una rottura nella linearità positiva della storia.
Tu giustamente sottolinei l’importanza della testimonianza. Cosa pensi succederà quando non ci saranno più testimoni dell’Olocausto?
I testimoni non possono essere sostituiti, ma ci hanno lasciato un dono: la loro testimonianza, detta, ripetuta, registrata, trascritta. Quando non ci sarà più la loro viva voce, il loro sguardo fondo a fissarci, il numero che ancora portano orgogliosamente sul braccio contro ogni negazionismo, starà a noi farli diventare il fondamento della nostra coscienza morale e storica, come madri e padri, come radici.

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