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Giulia Caminito, “L’irrequietezza rende l’uomo intraprendente”

"La grande A" di Giulia Caminito racconta una storia di cui l'Italia aveva bisogno. Colma finalmente una lacuna della nostra recente storia

MILANO – Meglio di così non poteva esordire, Giulia Caminito. “La grande A“, pubblicato da Giunti, è un libro che ha già riscosso ottime recensioni e che racconta una storia che in parte riguarda l’Italia – quella dell’occupazione dell’Africa durante il fascismo – e che l’Italia ha bisogno di leggere. Ecco l’intervista all’autrice.

Cosa rappresenta per Giada La grande A?

La Grande A rappresenta per lei un mondo sconosciuto, esotico, lontano, in cui tutto è possibile, un territorio da fiaba in cui accadono cose mirabolanti e si possono incontrare creature mai viste prima, inoltre rappresenta l’altrove materno, la terra che sua madre Adi ha scelto per sé, lasciandosi figli e marito alle spalle, in una forma di ribellione dal suo ruolo di donna e madre italiana. Giada all’inizio del libro, quando conia il soprannome Grande A pensando all’Africa, sta vivendo in tempo di guerra e crede che invece in Africa, nelle colonie italiane dove si trova la madre, tutto abbia l’aura della scoperta e della promessa, tutto è ammantato di biancore, candido e accogliente. Chiaramente come ogni sogno d’infanzia anche questo complesso di immagini s’infrangerà nel momento in cui Giada dovrà realmente andare in Africa, e dovrà veramente trascorrere le sue giornate in compagnia di Adi, che è una donna non semplice da assecondare e gestire.

Leggendo di Giada si ha la sensazione che le cose importanti stiano sempre altrove. Viaggiare può sanare questa irrequietezza o non c’è soluzione?

Sono contenta che sia stata colta questa sfumatura perché nel libro la mia idea mentre scrivevo era proprio quella di far notare come i desideri tendano a migrare sempre verso luoghi, soprattutto mentali e poche volte fisici, di cui abbiamo nostalgia o in cui proiettiamo il nostro futuro. Quando Giada vive a Legnano da bambina sogna le terre calde dell’Africa e subisce le angherie di una famiglia povera e numerosa, quando è in Africa il caldo e il sale la stordiscono, la rendono fiacca, la vita del bar di Adi è difficile e lei sogna la neve dell’Italia, ed è così anche per quegli italiani che hanno fatto fortuna in Africa e che in realtà mantengono viva la scintilla italiana nel loro animo, ma appena tornano in patria sentono forte e chiaro il celebre mal d’Africa e la rimpiangono per il resto della vita. Io penso che tutto dipenda dalla natura dei singoli individui e dalle loro aspirazioni, quindi sia soggettivo, ma che a livello generale, umano, il superamento dell’irrequietezza legata o meno alla nostra mobilità sia difficile e spesso utopico. Ma è anche questo impossibile da raggiungere che ci mantiene protesi e ci rende agili e intraprendenti, ci proietta verso l’alterità e ci predispone all’incontro.

Potremmo dire che Giada e sua madre attraversano il Mediterraneo contromano, ma in realtà si limitano a percorrere una strada che ci siamo scordati essere a doppio senso. Con quale scopo hai scritto di questa migrazione?

La mia idea era quella di far intuire e riportare all’attenzione innanzitutto il nostro movimento passato, come italiani, che non è stato un movimento di richiesta d’accoglienza, né un movimento d’incontro o di supporto, né un movimento di condivisione o di vicinanza, bensì un movimento di conquista e d’invasione: l’Italia e in conseguenza gli italiani hanno occupato parti di un continente con le armi e con la forza, hanno brutalmente massacrato migliaia di persone, hanno raso al suolo città per costruire reti urbane a loro immagine e somiglianza, hanno scacciato genti e popoli, hanno modificato usi e costumi, hanno colonizzato, nel vero senso della parola e non in un senso lato e labile, nel senso profondo e puro del termine. Mi sembra fondamentale appunto pensare a doppio senso questo movimento sull’ “autostrada” che unisce l’Italia all’Africa, è una presa di coscienza forse non risolutiva per affrontare i problemi di migliaia di persone che ora fuggono da territori massacrati e impoveriti dall’azione dei nostri paesi, ma quanto meno doverosa.

La grande A è liberamente ispirato alla biografia della tua famiglia. Come hai raccolto le storie che racconti? Sono tutte frutto di fonti orali? Com’è maturata la scelta di scrivere questa storia?

La scelta è maturata nel corso degli anni, perché ho sempre vissuto fin da bambina immersa in questi racconti e a un certo punto ho voluto approfondirli sia per conoscere il passato della mia famiglia sia per conoscere il passato dell’Italia. Ho quindi passato un anno a intervistare mia nonna, che nel libro è il personaggio di Giada, facendole un’intervista al mese, in ordine cronologico, cercando di farmi raccontare il più possibile le varie fasi della sua vita. Lei è molto lucida e ha ricordi limpidi del suo passato quindi siamo riuscite insieme a raccogliere molto materiale che io poi ho trascritto e ho rielaborato documentandomi dal punto di vista storico e iconografico.

La tua scrittura è stata definita “inventiva e spiazzante”. Quale lavoro hai fatto sulla lingua? Ci sono degli scrittori a cui ti sei ispirata in particolar modo?

Per assurdo il lavoro che devo sempre fare su quello che scrivo è di sottrazione, perché tendo a farmi trascinare dalla lingua per allontanarmi dai contenuti, molti la chiamano “sovrascrittura”, e non sempre è un bene, perché può seguire associazioni linguistiche che non vengono poi colte dal lettore e lo lasciano perplesso. Penso che questo tipo di linguaggio sia nato in me da una parte grazie all’incontro con alcune persone studiose di linguistica che hanno acceso la mia curiosità per la nostra lingua, dall’altra i miei scrittori e le mie scrittrici preferite appartengono a un periodo linguisticamente forte e marcato che è quello del dopoguerra italiano, se dovessi dire due nomi in particolare direi Mario Tobino e Laudomia Bonanni, per quanto riguarda questo libro. Se devo però indicare uno scrittore su tutti che mi ha stimolata linguisticamente, chi mi conosce sa già la risposta, devo dire Paolo Teobaldi, che è uno scrittore contemporaneo, che pubblica i suoi libri con l’editore e/o, a cui io sono molto legata e a cui devo molto (pur non conoscendolo) perché ha questa cura per il recupero e l’accumulo linguistico nei suoi libri, che mi hanno spronata a continuare nella ricerca di un mio linguaggio d’espressione.

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