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Gianni Canova, “Il cinema non è uno sterile specchio ma un corpo vivo”

Il critico cinematografico, tra i tanti protagonisti del Festival del ridicolo, parlerà col regista e sceneggiatore Davide Ferrario di come l’Italia al cinema abbia riso di sé stessa

LIVORNO – Guardiamo i film perché vogliamo che ci raccontino la nostra storia o perché desideriamo che le diano forma, insieme a noi? Quante storie che leggiamo sui libri o vediamo su uno schermo sembrano parlare di noi, ma siamo sicuri che stiano solo riflettendo la nostra immagine? O forse definiamo la storia della nostra vita proprio grazie a quei romanzi e a quei film che ci hanno tolto il sonno? Di questo e altro ancora parlerà il critico cinematografico Gianni Canova, tra i tanti protagonisti del Festival del ridicolo. Nello specifico, Canova parlerà col regista e sceneggiatore Davide Ferrario di come l’Italia al cinema abbia riso di sé stessa. L’evento, intitolato “COMICI, COMMEDIANTI & COZZALONI. ITALIA DA RIDERE PER IL GRANDE SCHERNO”, si terrà domenica alle 19.50 in piazza dei Domenicani. Noi l’abbiamo intervistato in anteprima.

 

Com’è cambiata, dagli anni Sessanta a oggi, la commedia all’italiana?

La commedia all’italiana non è un corpus unico e monolitico, definibile con un’etichetta universale e valida una volta per tutte. È un organismo sfaccettato e un corpo complesso, proteiforme, fatto di tante facce. Negli anni ‘60, la commedia italiana era sì l’indolenza, la sensualità, la pigrizia di Mastroianni ma era anche l’arroganza spavalda di Gassman, era l’istrionismo un po’ vittimista di Sordi ed era la digeneria di Manfredi, tanto per limitarsi ai grandi mattatori. Non era riconducibile a un unico denominatore comune. Forse la differenza tra quella commedia e quella di oggi è che allora c’era appunto una pluralità di maschere, una pluralità di grandi interpreti, mentre oggi ci sono la grande maschera di Luca Medici (Checco Zalone) e alcuni attori che a volte si misurano anche con la commedia ma non hanno più quella forza interpretativa che avevano i grandi mattatori della commedia italiana. Qualcuno dice che la commedia degli anni ’60 era più acida, più cinica, e per certi versi questo è vero. La commedia di oggi è una commedia meno arrabbiata ma è anche cambiata l’Italia attorno al cinema e che nel cinema si ritrova. La commedia, in quanto sismografo molto attento delle mutazioni sociali, rispecchia l’Italia anche da questo punto di vista.

 

Quale immagine diamo oggi dell’Italia tramite le commedie? Quanto è cambiata nel tempo e quanto è rimasta invariata? La commedia italiana è ancora capace di rispecchiare la società contemporanea?

Forse abbiamo usato un termine sbagliato, quando abbiamo detto che il cinema rispecchia la società, perché in questo modo rischiamo di affermare che, da un lato, c’è un corpo vivo (la società) e dall’altro lato uno strumento inerte, lo specchio che si limita a riflettere (il cinema). No, il cinema è sempre stato un corpo vivo dentro una società viva, in grado di interagire in maniera molto dialettica con la società a cui dava forma e voce. Negli anni ’60 il cinema metteva in scena soprattutto i tanti vizi e le poche virtù dell’italiano medio negli anni del boom: l’arte di arrangiarsi, la spavalderia, la cialtroneria, il tipo italiano un po’ gaglioffo, forte con i deboli e debole con i forti. Oggi, dopo anni di maschere molto statiche, come erano quelle portate sugli schermi dai cinepanettoni, Luca Medici interpreta una maschera più mobile, fluida, più evolutiva, nel senso che, in tutti i film in cui interpreta il personaggio di Checco, all’inizio mette in scena un monumento agli stereotipi dell’italianità, poi questi stereotipi li mette in crisi. Per esempio, nell’ultimo film prima incarna lo stereotipo dell’italiano medio attaccato al posto fisso come la summa dei suoi sogni. In seguito finisce per essere un personaggio che trova la felicità nel momento in cui rinuncia proprio al tanto agognato posto fisso. Molla tutto e se ne va in Africa, con una donna che ha tre figli diversi da tre uomini diversi di tre etnie diverse. Qui rispetto a quel sottofondo, a quella pancia italiana un po’ razzista e diffidente nei confronti del diverso, attaccata ai propri miseri privilegi (come il posto fisso), l’immagine che Checco Zalone propone non riflette l’Italia ma la propone. È un’immagine che va contro gli stereotipi in cui invece gli italiani continuano a riconoscersi.

 

In un’intervista rilasciata a Libreriamo a maggio, ha raccontato quali sono secondo lei le ragioni del successo dei film di Checco Zalone e Gennaro Nunziante, film – a suo dire – capaci di conciliare successo e qualità. Ma quale tipo di denuncia è quella di Zalone? La ritiene una denuncia costruttiva?

Non mi importa che sia costruttiva o distruttiva. Non sono uno di quelli che attribuisce un valore positivo al termine “costruttivo” e un valore negativo al termine “distruttivo”. A volte anche la distruzione è positiva e a volte la costruzione non lo è. Non è una denuncia, è una proposta. È un modello di risoluzione dei problemi della vita del personaggio che costruisce dei modelli diversi rispetto a quelli in cui si ritrovano al momento tanti di noi. Il fatto che poi la maggior parte degli italiani vada a vedere questi film ed esca appagata dalla visione forse ci dice che gli italiani sono un po’ stufi dei modelli nei quali si sono ritrovati negli ultimi vent’anni e hanno voglia di modelli nuovi.

 

Quanto è importante la presenza in Italia di un festival dedicato al ridicolo, come quello di Livorno?

È importante perché noi italiani siamo tendenzialmente di una cultura risofobica, cioè passiamo il nostro tempo a sghignazzare però ci vergogniamo del fatto di ridere. Sono reduce dal Festival di Venezia dove ho visto con i miei occhi dei critici che durante la proiezione di un film italiano in concorso hanno sghignazzato di gusto per tutta la durata della pellicola e al termine della proiezione si sono alzati in piedi gridando: “Vergogna!”. Non si capiva vergogna di che, se per la qualità del film o piuttosto per il fatto che avessero riso. Questo succede perché siamo risofobici: ci piace ridere ma poi ci vergogniamo e non accettiamo il riso all’interno della nostra cultura. All’interno di questo contesto, la presenza di un festival dedicato a questi temi mi pare cosa buona e giusta.

 

Dario Boemia

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