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Francesca Magni, “Ecco come affrontare la dislessia di un figlio”

La giornalista, blogger ed autrice è in libreria con "Il bambino che disegnava parole", un manifesto dei diritti del dislessico (e di ogni studente) scritto con competenza e amore

MILANO – “Se vivi una cosa come la dislessia, credo tu abbia il dovere di mettere in comune quello che hai scoperto.” E’ questo il parere di Francesca Magni, giornalista, blogger ed autrice, in libreria con “Il bambino che disegnava parole“, un manifesto dei diritti del dislessico (e di ogni studente) scritto con competenza e amore. Un’opera che nasce dall’esperienza personale della scrittrice, la quale ha scoperto tardi la dislessia del figlio all’età di 12 anni. Un libro che traccia una mappa preziosissima per tutti: per non perdersi, per non permettere che i propri ragazzi si perdano per strada, per scoprire nuove insospettabili meraviglie della mente umana.

 

Da cosa ha tratto ispirazione per scrivere questo libro?

Il libro si ispira alla scoperta tardiva della dislessia di mio figlio. Aveva 12 anni, bravissimo alle elementari, curioso, con pensieri originali, dotato per il disegno e lo sport. Ma all’improvviso qualcosa si inceppa, prende brutti voti, odia la scuola, ha attacchi di panico. La rabbia repressa, certe bizzarrie nell’uso della lingua, l’incapacità di affrontare cose semplici come allacciarsi le scarpe a fronte dell’estrema abilità in compiti complessi, tanti comportamenti bizzarri a cui avevamo dato interpretazioni psicologiche fuorivianti, all’improvviso da domanda diventano risposta: lui è dislessico. Una brava psicologa lo intuisce semplicemente ascoltando la sua storia. Da quel momento ne inizia un’altra di storia: quella di una famiglia che entra in crisi di fronte a una diversità di cui tanto si parla ma poco si sa con chiarezza. E questo è il romanzo. Protagonisti verosimili e immaginari, per incarnare tutte le posizioni di fronte alla dislessia: lo scetticismo, la vergogna, la paura; ma anche la voglia di conoscerla e la capacità di farne una risorsa.

 

Per gli scrittori è un dovere sociale affrontare un certo tipo di tematiche?

Per me è stata un’urgenza. Se vivi un’agnizione come quella della dislessia, se capisci che si tratta di una neurovarietà, un modo di usare il cervello diverso da quello “normotipico” ma ancora non ben riconosciuto e compreso, specie a scuola, con la conseguenza che tanti bambini e ragazzi vivono sofferenze che sarebbero evitabili, allora sì: se vivi una cosa del genere, credo tu abbia il dovere di mettere in comune quello che hai scoperto. Ma solo se è un’urgenza, se lo hai vissuto nella carne, il messaggio potrà essere efficace. Per propagarsi e attecchire, la conoscenza ha bisogno della forza propulsiva dell’emozione. Dovere è una parola che amo poco; tuttavia penso che abbiamo, in generale, il dovere di rivelarci di più e meglio agli altri, perché ci si possa (ri)conoscere e sentirsi meno soli e strani.

 

Com’è passare dal giornalismo al romanzo?

Esistono due tipi di giornalisti: quelli che scelgono il mestiere perché hanno il “sacro fuoco” della notizia  e quelli che lo scelgono perché amano la scrittura. Io sono del secondo tipo. Passare al romanzo per me è stato come uscire da un acquario e nuotare in mare aperto. Ogni tanto mi guardavo attorno, estasiata e atterrita dalla mancanza di confini, la mia editor diceva “Ti va di aggiungere questo?” e io, preoccupata, “Cosa tolgo in cambio?”; lei rideva. Così ho sperimentato la libertà. Di misura, di stile. E di efficacia: ho capito che potevo, in forma di romanzo, dire più di quanto avrei mai detto con mille articoli.

 

Ho notato che nel libro non c’è una distinzione netta tra discorso diretto e indiretto; come mai questa scelta?

Credo sia figlia dell’urgenza di cui dicevo. Non è stata una scelta ragionata, ma una specie di necessità che si spiega solo a posteriori. La storia correva, non voleva intralci, aveva fretta di travolgere il lettore, quello che si riconoscerà nella vicenda e ancor più quello che di dislessia non sa niente, e del quale spero tanto di destare l’attenzione.

Ma accetto critiche su questa scelta stilistica, so che può risultare faticosa; come la scelta di scrivere in seconda persona: la mia editor, quando le ho detto che “mi veniva così”, ha risposto: “Prova, se ti risulterà naturale fino alla fine, è la forma giusta”. Alla fine il “tu” mi ha permesso di tenere insieme due esigenze opposte, personalizzare e oggettivare la vicenda.

 

Questo è periodo di ritorno a scuola: che consiglio si sentirebbe di dare ai genitori che hanno figli con la dislessia?

La dislessia, come il mancinismo, è ereditaria: bisogna sempre cercare in famiglia chi ha caratteristiche simili (in genere sono declinazioni non identiche); questo aiuta a capire meglio cosa prova il bambino dislessico e a far scattare un’empatia reale anche in famiglia. L’empatia non è scontata, ma è necessaria perché il bambino senta di essere capito. Ed è necessaria perché diventa la forza dei genitori ai quali tocca il delicato compito di stringere un’alleanza a tre: con la scuola e con gli specialisti (il neuropsichiatra che ha stilato la certificazione, gli psicologi e i logopedisti che si sono occupati del caso). È indispensabile che gli attori in gioco, famiglia/scuola/specialisti, si parlino e analizzino insieme come “funziona” l’apprendimento del bambino (ogni dislessico è un caso a sé) per trovare strategie su misura. Solo in un’alleanza a tre si riuscirà a convincere la scuola a lavorare per obiettivi, a valutare il dislessico sul lungo periodo in base alle sue conquiste, a non fermarsi a una valutazione numerica delle singole prove ma a dargli tempo per consolidare gli apprendimenti. La parola magica, con un dislessico, è pazienza. Sul lungo periodo lui “verrà fuori” e stupirà tutti. Si tratta di non farlo sentire troppo stupido, nel frattempo. Di non ferirlo troppo…

 

E, invece, agli aspiranti scrittori?

Il consiglio è di vivere intensamente, con tutto l’amore e il dolore possibili, ciò che si trovano a vivere, di qualunque cosa si tratti. Credo siano le storie che cercano lo scrittore, non viceversa. Considero il processo creativo simile a una gestazione; per quanto mi riguarda, sono rimasta incinta di questa storia. Ma ho avuto anche alcune “gravidanze isteriche”, in passato… ed è bene che i frutti siano rimasti nel cassetto.

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