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Edoardo Montolli, “Il 1992 cambiò la storia dell’Italia nel bene e nel male”

A 26 anni dalla strage di Capaci, abbiamo intervistato lo scrittore e giornalista Edoardo Montolli in merito alla sua ultima inchiesta sul caso Giovanni Falcone

MILANO – “Falcone era considerato il massimo esperto nella lotta alla criminalità organizzata. Riuscì a decifrare un mondo, quello di Cosa Nostra, che altri nemmeno avevano intuito…” afferma Edoardo Montolli, autore deI diari di Falcone, libro-inchiesta che mette in relazione nuove prove, testimonianze, appunti personali, e traccia un quadro inedito che pone nuovi quesiti sulla morte del giudice. In occasione dell’anniversario della scomparsa del magistrato, in questa intervista inedita, il giornalista spiega l’importanza che ha avuto un grande uomo come Falcone che ha dato la vita per tentare di liberare l’Italia dal cancro mafioso.

 

Che importanza ha rappresentato un personaggio come Giovanni Falcone per la storia della società italiana?

Falcone era considerato il massimo esperto nella lotta alla criminalità organizzata. Riuscì a decifrare un mondo, quello di Cosa Nostra, che altri nemmeno avevano intuito. Quando si spostò agli Affari Penali del ministero della giustizia, la considerazione di cui godeva all’estero era pari a quella – per usare un termine utilizzato da chi indagò per primo sulla strage di Capaci – di un Capo di Stato. Tuttavia finché fu in vita venne fortemente osteggiato, soprattutto all’interno della magistratura. Non solo per le note vicende della mancata nomina a giudice istruttore di Palermo e per l’avversione di molti suoi colleghi all’ipotesi che diventasse il primo superprocuratore antimafia. E nemmeno i veleni sparsi dal Corvo furono gli unici. Al Csm gli venne contestato di aver lasciato nei cassetti le indagini sui delitti eccellenti in Sicilia. E proprio lì, con amarezza, si lamentò delle voci diffuse da qualcuno secondo cui all’Addaura, dove era fallito un attentato ai suoi danni, i candelotti di dinamite se li fosse messi da solo. Il suo arrivo al ministero coincise anche con virulenti attacchi di parte della stampa, sui giornali e in tv. Ma tutto cambiò dopo la strage. Ci fu una corsa ad impossessarsi della sua memoria, delle sue battaglie, una gara imbarazzante a chi lo stimava di più e a chi gli era più vicino. Ecco, una parte del libro è dedicata a rimettere a posto le cose: raccontando chi erano i veri amici, le persone con cui aveva rapporti e quelle che, da vivo, lo avversavano.

 

A distanza di 26 anni, l’opera di Falcone ha prodotto dei risultati nella lotta alla mafia?

Non vi è dubbio che quel tipo di mafia, almeno in Sicilia, oggi sia stato drasticamente ridotto. È proprio cambiato il modo di interagire con la popolazione e di influenzarla. La ribellione dei siciliani cominciò proprio con le stragi di Capaci e di via D’Amelio. D’altra parte il giudice sosteneva che la mafia, come tutti i fenomeni umani, sarebbe stata, presto o tardi, destinata all’estinzione. Ricordò però anche che già all’epoca era entrata in Borsa, suggerendo così una trasformazione più raffinata dell’organizzazione, elegante, insospettabile. In giacca e cravatta. Mi pare che diversi accadimenti gli abbiano dato e gli diano ancora ragione.

 

Quanto è importante ricordare la figura del magistrato Falcone per le generazioni di oggi?

L’anno in cui avvenne la strage di Capaci diedi l’esame di maturità: era il 1992, un anno che, nel bene o nel male, cambiò la storia d’Italia, segnando l’inizio del tracollo della Prima Repubblica e influenzando inevitabilmente l’intera generazione cui appartengo. Ricordo che all’epoca, nel sentire comune, l’eccidio venne percepito come una sorta di colpo di coda da Basso Impero, il boato di un sistema ormai malato. Ma se ci si riguarda indietro si scopre come proprio all’interno di quel sistema Falcone, dagli Affari Penali, aveva inventato, tra le altre cose, il sistema della rotazione in Cassazione, in seguito alla quale le condanne del maxiprocesso erano diventate definitive. Fu proprio dal suo interno che riuscì a dare il più devastante colpo a Cosa Nostra.

 

Dalla tua inchiesta “I diari di Falcone” emergono inevitabilmente nuovi quesiti relativi alla strage di Capaci e a tutto ciò che orbitava attorno al magistrato, prima e dopo la sua scomparsa. Pare che tutto sia ancora avvolto da una foschia misteriosa. Cosa pensi si siano detti Falcone e Buscetta tra il 28 aprile e primo maggio a Washington?

Al processo Capaci Bis si è affermato come la strage fu unicamente opera dei mafiosi. Di fatto, annoto solo come le versioni dei pentiti su quando Totò Riina decise di attuarla e di sostituirla all’ipotesi di un agguato a Roma siano piuttosto numerose. Allo stesso tempo il commando che prese parte alla strage risulta decisamente anomalo se si sta a quanto scriveva lo stesso Falcone in Cose di Cosa Nostra. Si trattava cioè di un gruppo di persone di secondo e terzo piano nell’organizzazione, Brusca a parte. Molti non si erano nemmeno mai visti prima. E alcuni di loro, con ruoli apicali nella strage, non avevano neppure conosciuto il Capo dei Capi. Di fatto i pentiti raccontarono tutti che, pedinando il suo autista di Palermo negli ultimi quindici giorni, avevano scoperto come Falcone scendesse sull’isola anche di sabato e che per questo sabato 23 maggio 1992 erano appostati sulla collinetta di Capaci. Facciamo pure che siano venti, i giorni: negli ultimi due mesi, di certo, come mostrano le sue agende elettroniche, Falcone non era mai arrivato a Palermo di sabato. Quindi, mi chiedo, chi ha avvertito i mafiosi del suo arrivo? Per quanto invece attiene a Buscetta, io scrivo nel libro che non so se si siano incontrati. Di sicuro sia Falcone che Borsellino volevano incontrarlo dopo il delitto del 12 marzo di Salvo Lima, quando una “circolare ai prefetti” mise in allerta le forze dell’ordine da possibili attentati tra marzo e luglio 1992 atti a destabilizzare il Paese. Cosa che sarebbe puntualmente avvenuta proprio con la loro morte. Di sicuro, ancora, autorevoli testimoni italiani e americani parlarono di un incontro negli Stati Uniti a fine aprile tra Falcone e Buscetta. E di sicuro, infine, sull’agenda elettronica ritrovata cancellata di Falcone (e il cui contenuto sarebbe poi stato recuperato da abili consulenti) era annotato in quelle date un viaggio del giudice a Washington. Questo viaggio è stato successivamente smentito dal ministero della giustizia e dall’Fbi. Va bene. Ma nessuno ancora oggi sa allora dire dove si trovasse Falcone, l’uomo più controllato d’Italia, in quei giorni. E questo mi pare paradossale.

 

Se i dati raccolti con la clonazione dei telefoni cellulari mafiosi fossero stati utilizzati per le indagini, si sarebbero potute evitare le stragi del 1992?

No. Le indagini sulle clonazioni dei cellulari sono successive e vennero svolte dall’allora commissario e consulente delle Procure Gioacchino Genchi, la stessa persona che aveva recuperato il contenuto dell’agenda elettronica cancellata di Falcone. Della sua storia avevo scritto in un libro del 2009, Il caso Genchi, su cui ha recentemente realizzato un dossier in italiano e in inglese Ossigeno Informazione, l’osservatorio che monitora la libertà di stampa nel nostro Paese. Si trattava comunque di consulenze per la Procura di Palermo. Tuttavia non entrarono mai nei processi a Caltanissetta sulle stragi. Da una di esse si evidenziava come, contrariamente a quanto dichiarato da tutti i pentiti, le clonazioni, almeno nel trapanese, fossero iniziate nel 1991, ossia prima degli eccidi di Capaci e via D’Amelio.

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