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Dante e papa Celestino V, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”

Il 19 maggio ricorre l’anniversario di morte di papa Celestino V. Forse il nome non vi dirà molto, ma i versi a lui dedicati da Dante Alighieri nella “Commedia” sono fuor di dubbio immortali

MILANO – Siamo nel III canto dell’Inferno: Dante, accompagnato dalla sua guida Virgilio, ha appena superato la porta degli inferi (quella dalla celebre scritta “Per me si va nella città dolente / per me si va nell’etterno dolore / per me si va tra la perduta gente […] lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”) e ha raggiunto l’ “Antinferno”, il luogo in cui sostano per l’eternità le anime degli ignavi: costoro “visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”, non causarono il male ma non perseguirono nemmeno il bene: proprio per questo la giustizia divina risparmia loro sia la dannazione dell’Inferno, sia la glorificazione del Paradiso: queste anime che in vita mai si schierarono e mai andarono dietro ad alcuna insegna, per la legge del contrappasso sono costrette a girare nude per l’eternità inseguendo un vessillo che sfreccia velocissimo vorticando su se stesso; punti e feriti da vespe e mosconi, versano il loro sangue mescolato alle lacrime. Il tutto viene succhiato da deo vermi (e meno male che questi non sono stati dannati!).

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CELESTINO V

In alcuni dei versi più famosi di questo III canto, il Sommo Poeta scorge tra il gran numero di pusillanimi “l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto.” Dante non cita espressamente il nome di quest’anima dannata (non essendosi distinta in vita, di certo non merita una tale distinzione nella morte), ma gli studiosi sono unanimi nel riconoscere in questa figura macchiata d’ignavia l’eremita Pietro da Morrone, eletto papa il 5 luglio del 1294 e incoronato pontefice il 29 agosto con il nome di Celestino V. Come mai Dante si rivolge con acredine a questo ex pontefice? Semplice: appena 4 mesi dopo l’incoronazione, papa Celestino V abdicò e rinunciò al papato e al suo ruolo di guida in terra dell’intera Cristianità.

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IL GRAN RIFIUTO

Pietro da Morrone dimostrò infatti una grande ingenuità nella gestione amministrativa della Chiesa e delle lacune culturali non idonee al prestigio della sua carica (nei concistori si doveva parlava in volgare, non conoscendo egli la lingua latina utilizzata in Vaticano). Sotto la sua gestione, l’amministrazione versò in uno stato di gran confusione. A soli 4 mesi dalla sua incoronazione Celestino V rinunciò al papato, secondo quando riportato dai documenti dell’epoca: “Spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta”.

 

BONIFACIO VIII

Nel III canto dell’inferno Dante Alighieri accusa quindi Celestino V di essersi sottratto alle sue responsabilità nei confronti della Chiesa e della Cristianità, provocando al contempo, con la sua rinuncia al pontificato, l’ascesa di Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, del quale il poeta, in aperta contrapposizione ideologica, disapprovava profondamente le ingerenze in campo politico. Dante incolpava inoltre Bonifacio VIII di aver volutamente causato per vie traverse il suo esilio da Firenze e nutrì per tutta la vita nei confronti un profondo rancore nei confronti del nuovo pontefice.

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