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Carmen Pellegrino, “Certi legami, per quanto li ignori o li aggiri, restano ineliminabili”

La giovane scrittrice, specializzata nel raccogliere suggestioni sui luoghi abbandonati e già finalista Campiello con "Cade la terra", ci parla del suo ultimo libro

MILANO -“Un padre è prima di tutto un uomo, con tutte le contraddizioni del caso”. Dall’analisi del difficile rapporto tra un padre e la figlia nasce “Se mi tornassi questa sera accanto“, l’ultimo libro di Carmen Pellegrino, giovane scrittrice specializzata nel raccogliere suggestioni sui luoghi abbandonati e già finalista Campiello con “Cade la terra“. Protagonista del suo romanzo è Giosuè Pindari, è un uomo antico, legato alla terra, alla famiglia e a un ideale politico che  poco alla volta ha perso tutto: la moglie, gli ideali, la figlia. Proprio sul recupero del rapporto con la figlia è incentrato il romanzo di cui Carmen Pellegrino ci parla in questa intervista.

 

Tema centrale del tuo ultimo libro è il rapporto padre-figlia. Perché  hai scelto di trattare questo focus?

Forse perché in quel rapporto, come per altri versi e più pesantemente in quello con la madre, viene a determinarsi gran parte di quello che saremo: adulti mancati, bambini mai nati, bambini mai stati…

 

Il libro prende il titolo da un verso di “A mio padre” di Alfonso Gatto. Come mai questa scelta?

Sono molto legata alla memoria del poeta. Alfonso Gatto era nato a Salerno e sua figlia veniva a trascorre le vacanze nel paese dove sono nata. Un’estate – avevo dieci anni – mi portò da leggere alcuni versi del padre: il senso non lo capivo, a quello avrei pensato in seguito, ma le parole facevano un suono così bello e dolce, come non ero abituata a sentirne, che promisi a me stessa che avrei cercato altre parole, infinite parole che mi facessero sentire ancora così: presa per incantamento.

 

Quanto c’è di autobiografico in questo libro?

Immagino che la scrittura abbia sempre a che fare con la vita, anche se non necessariamente con la propria. Per questo libro ho ripercorso il rapporto difficile con mio padre – anche lui socialista come Giosuè Pindari; anche io comunista come Lulù.

Dopo anni di silenzio e freddo, un gran freddo, ho cercato mio padre, ritornando dove sono nata e scoprendo nell’omone severo che ricordavo un uomo fragile che non conoscevo. Ho capito così che riconciliazione è una parola bella, e che un padre è prima di tutto un uomo, con tutte le contraddizioni del caso; ho capito, soprattutto, che certi legami, per quanto li ignori o li aggiri, restano lì: ineliminabili.

Sei stata definita “abbandonologa”: quali sono i luoghi abbandonati che in questo tuo libro inviti a riscoprire e valorizzare?

C’è un giardino abbandonato, mia grande passione perché in quelli vedi proprio la natura agire come un giardiniere invisibile. E c’è una cascina abbandonata, come ce ne sono molte al Centro Nord.

 

Sei stata finalista Campiello con “Cade la terra”. Cosa ti sei portata dentro, come persona e come scrittrice, di quella esperienza?

È stato una esperienza che non dimenticherò. Mi ha dato coraggio – ero una esordiente – e la forza necessaria a proseguire. Scrivere per pubblicare comporta uno svelamento, l’esposizione allo sguardo altrui, a una interpretazione che può non coincidere con quanto speravi. Puoi piacere, disturbare o addirittura lasciare indifferenti. È un bel carico di emozioni, in ogni caso, da affrontare.

 

In quale luogo vorresti, o hai già pensato ambientare, il tuo prossimo libro?

Può sembrare uno scherzo, ma non lo è: dagli Appennini, che sono stati il riferimento geografico principale dei miei due romanzi, passerò alle Ande. Fra qualche mese partirò per l’Ecuador.

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