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Andrea Piva, “Cosa dobbiamo fare quando ci rendiamo conto di essere finiti in un vicolo cieco?”

Il nuovo romanzo di Andrea Piva racconta la storia di Vittorio, che a trent'anni è già riuscito a sfondare e a fallire disastrosamente. Ecco l'intervista

MILANO – Che sia per il cinema o per la letteratura, Andrea Piva, salernitano classe 1971, scrive storie da quasi vent’anni, da quando nel 2000 ha lavorato alla sceneggiatura di LaCapaGira, film recitato interamente in dialetto barese e diretto dal fratello Alessandro. Come scrittore ha esordito nel 2006 con “Apocalisse da camera” (Einaudi), raccontando una generazione perduta e orfana di ideali, una generazione che però, nel momento della disfatta, scopre di avere un cuore e una speranza. E da una disfatta parte anche “L’animale notturno“, appena uscito per Giunti. Il nuovo romanzo di Andrea Piva, ambientato in una Roma così bella da abbagliare, racconta la storia di Vittorio, che a trent’anni è già riuscito a sfondare e a fallire disastrosamente. Ma Vittorio ha la capacità di alzarsi e di trovare un obiettivo, in grado di dare un senso alla propria vita: fare un sacco di soldi, a qualunque prezzo. Abbiamo incontrato l’autore. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Vittorio è colto in un momento drammatico della vita, quello in cui ci si accorge di aver fallito. Ma reagire a questo stato di cose è possibile? Forse ne è testimonianza l’intero romanzo?

Be’, sì, reagire si può sempre, e forse sempre si dovrebbe, almeno tentare di farlo, però è vero pure che non sempre la vita ti offre possibilità concrete di rimetterti in piedi. Per dire, un conto è reagire al fallimento da alfabetizzati e con una famiglia alle spalle in un mondo oggettivamente piuttosto ricco di opportunità, e un altro è provare a farlo in uno in cui per lavarti le mani devi attraversare dieci chilometri di deserto. Però è vero, il mio romanzo contiene un nascosto invito a provare a cambiare aria e atteggiamento, quando ci si rende conto di essersi infilati in un vicolo cieco e ci sono le condizioni per provarci.

Uno dei temi più interessanti che affronti è appunto la possibilità del cambiamento. Di cosa abbiamo bisogno per riuscire a cambiare la nostra vita e a darle la direzione che vogliamo?

Be’, prima di tutto si dovrebbe imparare a capire cosa veramente vogliamo. Non dimenticare che Vittorio riesce a cambiare vita più o meno secondo i propri piani ma poi si pente anche piuttosto amaramente di averlo fatto, e una delle riflessioni più sentite che compie su quanto gli succede nel romanzo è proprio quella in cui si rende conto della distanza incolmabile che può separare i desideri dalla vocazione. Distanza di cui ti accorgi quasi sempre quando è troppo tardi per tornare indietro. I desideri hanno lo sguardo corto; non sempre quello che vogliamo corrisponde al meglio per noi. Prima di tutto c’è da capire se stessi su quello che davvero si vuole per sé, e non è mai facile. Un ragazzino di quindici anni che abbia una vocazione, che so, al pianoforte, probabilmente tutto vorrebbe fare, alla sua età, tranne che suonare e studiare il piano per molte ore al giorno. Ma se lasciasse il piano per andarsi a fumare tutto il giorno le canne con gli amici probabilmente qualche anno dopo se ne pentirebbe amaramente. La chiave, al solito, è trovare un equilibrio sano tra il divertimento, le nuove esperienze, la vita in generale e lo studio, la costruzione del sé. Per carità, le cazzate si fanno, si devono fare, e nella vita qualche cannetta in buona compagnia ci sta tutta, eh. Del resto a una certa età perdere tempo a guardare le nuvole è pure formativo, per lo meno per me è stato senz’altro così. Ma, ecco, si dovrebbe cercare di non perdere mai l’equilibrio, non si dovrebbe mai smettere di costruirsi e tentare di capire quale sia la propria vera strada. Per come la vedo io, un cambiamento vantaggioso può discendere solo da questo.

Trent’anni poi è un’età particolare, “il momento della vita in cui l’animale occidentale inizia a guardare con minore sospetto del solito a una qualche forma di religione”. Cosa significa avere oggi trent’anni?

Bella domanda, io li ho passati da un po’, e tutto quanto posso a dire in proposito senza fare necessariamente la figura del cretino è che i trentenni di oggi devono faticare di più per ottenere certezze sul proprio futuro di quanto non dovessimo fare noi nati nei Settanta. È vero che anche altri mondi e nuove grandi opportunità si stanno aprendo, ma mi pare evidente come il sogno di una società sempre stabilmente in crescita sia finito. Per di più, la generazione che ci ha preceduto ha fatto un po’ di casini con i conti pubblici, con le politiche economiche, con il senso civico e con quello della legalità. Il risultato è che soprattutto tra i giovani si vive sempre maggiormente nell’incertezza e nessuno crede più in niente. Quest’ultima cosa in teoria ai miei occhi non è neanche necessariamente un male, ma purtroppo mi pare che nell’era dei social network non si creda in niente più per sentito dire che altro, per presa di posizione, perché è la cosa più facile da fare. Sembriamo i nichilisti di The Big Lebowski, il nostro è una macchietta dello scetticismo più che uno scetticismo consapevole, che invece per quanto mi riguarda se inteso come dubbio nei confronti del dogma è atteggiamento degno del massimo rispetto, perché è proprio dal dubbio che è scaturita la nostra grande avventura di conoscenza nel mondo.

Cos’hanno i tuoi romanzi della tua esperienza nel mondo del cinema?

Guarda, in generale nelle cose che scrivo cerco di fare confluire le esperienze che ho fatto in altri campi, perché non mi piace molto scrivere di cose che non conosco. Anche se ne fossi capace non credo mi appassionerebbe. E dato che la mia esperienza nel cinema è stata piuttosto intensa, in questo romanzo è con una certa intensità che ce l’ho fatta entrare. In che modo, lo vedrà il lettore. Quello che posso dirti qui è che per me sono stati anni grandemente formativi. Ho imparato molte cose su di me, sul mondo, sul potere, sull’arte, sulla gente…

Il protagonista dice di voler raccontare al cinema “senza edulcorazioni e macchiette”. Si tratta di un’aspirazione che condividi anche tu? Quale direzione deve prendere la letteratura in questi anni?

Sì, decisamente, la condivido in pieno. Ma credo sia prima di tutto un fatto di carattere, e solo in seconda battuta di senso estetico. Non ho niente contro film e romanzi fatti per intrattenere in leggerezza, e a volte è innegabile che chi li produce abbia anche grandi capacità di rappresentazione, ma non sono quelli che mi fanno aprire cuore e portafogli. Questo si riflette anche sulla mia creatività: anche quando sono io a scrivere sono attratto solo da personaggi forti e molto vicini al reale più spigoloso. Il quadro carino da mettere in soggiorno non mi interessa. A me interessa il rumore inatteso, pure fastidioso, che ci arriva dall’altra stanza. Sulla direzione che la letteratura dovrebbe prendere oggi devo dirti che negli anni ho cambiato più volte idea, probabilmente perché ci ragiono da quando stavo a scuola, e forse in ultima analisi questo rispecchia una mia apertura di base a varie possibili forme di espressione. Da ragazzo pensavo che l’unico argomento possibile di ogni forma d’arte fosse la condizione umana in sé considerata, come mi suggeriva un nostro poeta che leggevo ossessivamente, poi in seguito ho creduto possibile e necessario solo il racconto critico del mondo contemporaneo a chi scrive, e oggi mi pare che l’ideale sarebbe riuscire a fare confluire le due cose in un’unica opera, magari di passo contemplativo e analitico insieme.

Quale Roma racconti in questo romanzo?

La Roma che racconto in questo romanzo è una Roma contemporanea, languida e appesantita dalla storia e dalla varia umanità che la anima, arricchisce e saccheggia, ma tutto sommato ancora viva e spettacolare. Per me personalmente è più o meno come la vede Vittorio, una specie di continua reincarnazione di se stessa che porta i segni di quello che è stata anche agli occhi di chi non sembra farci caso. Non credo esista luogo al mondo dove siano successe tante cose tanto importanti distribuite in un arco di tempo tanto vasto. E questo per le sue strade si avverte con chiarezza, anche se si cammina con il postpunk in cuffia e tutt’altro per la testa. Lo dico per esperienza.

 

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