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2084, la fine del mondo: Boualem Sensal a Mantova parla di teocrazia

Boualem Sansal fino al 2003 è stato funzionario del ministero dell’Industria algerino, ma poi venne allontanato per i suoi scritti

MANTOVA – Boualem Sansal fino al 2003 è stato funzionario del ministero dell’Industria algerino,  ma poi venne allontanato per i suoi scritti e per le sue prese di posizione politica. E’ autore di diversi romanzi grazie ai quali, nel 2014, è stato nominato al Premio Nobel per la letteratura.

Nell’ultimo, 2084. La fine del mondo, un titolo che non può non far pensare a George Orwell,  Sansal descrive un paese chiamato Abistan dove l’abilang è l’unica lingua che si parla, quella che ha soppiantato tutte le precedenti, perché rischiano di aprire la mente. In quel nuovo regno, il passato, in tutte le sue forme, non ha più alcun valore e tutto è nelle mani di Yölah e del suo rappresentante in terra, il profeta Abi. E’ Yölah che sa le cose e che ne decide il significato, ma soprattutto è a lui che spetta il compito di istruire chi vuole. Abbiamo incontrato Boualem Sansal al Festivaletteratura di Mantova.

  

La storia  del romanzo è nata prima o dopo la Primavera Araba?

Sicuramente dopo. Sono stato una voce fuori dal coro nel momento della Primavera Araba: tutto il Nordafrica era ottimista e credeva davvero ci sarebbe stata una rivoluzione democratica. Io , invece, mi ricordavo bene cosa fosse successo nel mio paese, in Algeria, molti anni prima. Prima c’era una dittatura militare che si è rafforzata al formarsi e al crescere di una dittatura religiosa. La libertà era già poca nel mio Paese, poi è sparita del tutto. Soprattutto all’Europa faceva comodo credere in questo sogno collettivo ed ignorare che nel mondo musulmano ci sono dinamiche e tempi diversi. Le altre religioni monoteiste hanno conosciuto la libertà e la democrazia, nell’Islam questo momento deve ancora arrivare.

 

Nell’Abistan che lei ha immaginato si parla l’Abilang, una lingua che ha sostituito quelle precedenti e che si caratterizza per un ‘estrema semplicità. Quale è l’importanza del linguaggio in un regime dittatoriale e teocratico?

Il regime ha tanti strumenti di controllo come i tasti di un pianoforte , la violenza, il controllo della vita sociale, il clientelismo. Ma il controllo più importante è nella testa di ognuno dei sudditi per questo nell’Abistan si è eliminata la storia e la filosofia. Sa che nei paesi islamici non si insegna la filosofia?  Perché aiuta a ragionare ognuno con la propria testa, quando tutte le risposte si devono trovare nel Corano. Anche il linguaggio, in questo senso, è importante: se fin da bambini si è educati a dire certe parole come sottomissione e ad ignorarne altre come libertà ci si sentirà condizionati da adulti ad essere sottomessi ed inclini all’ubbidienza.  Per quanto riguarda la semplificazione del linguaggio, pensiamo alle parole usate nell’addestramento militare , poche, essenziali e forgiano la persona.

 

In Abistan anche il tempo è parte del controllo di ognuno…

Sì, anche il tempo è uno strumento fondamentale di controllo in tutti i regimi : si elimina il passato e si inizia a studiare la storia dal momento dei “ padri fondatori” . Ma si distrugge anche la prospettiva del futuro , creando un tempo immobile ed eterno: succede anche nella Bibbia o nel Corano e cosi si vive un presente atemporale e lunghissimo. C’è da ricordare, inoltre, che la concezione del tempo è molto diversa in Occidente, ci sono ancora società arcaiche nel sud dell’Algeria, ad esempio, dove non esistono coordinate né temporali né spaziali. “A che ora ci vediamo domani?”  e si risponde “ Se Dio vuole, se capiterà” e la stessa cosa succede con il “ dove”.

  

In 2084, l’unico che ha qualche dubbi e sospetti è Ati, che dopo anni trascorsi in un sanatorio, vuole andare, novello Ulisse,  oltre la Frontiera. Cosa rappresenta questo personaggio?

Ati vuole andare oltre la Frontiera per capire cosa sta succedendo, ma è solo ed è perduto. Non ha nessuna ambizione personale, al contrario di Ulisse perché in un regime come l’Abistan manca la condizione interiore che possa far scattare la rivoluzione: ci deve essere un input esterno, un elemento catalizzatore.  Poi bisogna ricordare che nel romanzo la sua ricerca procede anche grazie a Koa che rappresenta la burocrazia e a Toz che incarna il potere, ma si tratta, comunque, di una ricerca limitata che non porta a nessuna rivoluzione.

L’input nel romanzo sono le scorribande che attaccano le carovane in mezzo alle montagne, ma non è sufficiente  perché una vera rivoluzione richiede una società matura, altrimenti tutto si esaurisce sempre in lotte per il potere, che cerca di contrastare o di eliminare per raggiungere altri fini, come , in effetti, succede nell’Abistan.

 

Alessandra Pavan

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