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Massimo Siragusa, ”Per la fotografia è difficile affermarsi in Italia”

È difficile coltivare e mantenere vigile nel tempo l'interesse per la fotografia in Italia. Ad affermarlo è Massimo Siragusa, fotografo di spicco nel panorama internazionale, che al territorio italiano ha riservato un'attenzione privilegiata nel suo lavoro. L'autore ci parla della sua passione, di cosa rappresenti per lui la fotografia e dei problemi che questa forma d'arte vive nel nostro Paese...

Il celebre fotografo racconta com’è nata la sua passione per questa forma d’arte, parla del suo lavoro e analizza le difficoltà che la fotografia incontra nel nostro Paese

 

MILANO – È difficile coltivare e mantenere vigile nel tempo l’interesse per la fotografia in Italia. Ad affermarlo è Massimo Siragusa, fotografo di spicco nel panorama internazionale, che al territorio italiano ha riservato un’attenzione  privilegiata nel suo lavoro. L’autore ci parla della sua passione, di cosa rappresenti per lui la fotografia e dei problemi che questa forma d’arte vive nel nostro Paese.

 

Come nasce la sua passione e cosa rappresenta per lei la fotografia?

 

 

È nato tardi questo amore, durante i primi anni di università: la macchina fotografica mi era stata regalata dai miei genitori per il diploma. Era la fine degli anni Settanta, un periodo di grandi fermenti politici, e io iniziai a raccontare con i miei scatti quello che mi accadeva attorno. È una passione nata un po’ per caso: inizialmente volevo fare il giornalista di penna, ma con la fotografia ho scoperto la mia vocazione.
La fotografia è diventata una parte fondamentale della mia vita: non è soltanto un lavoro, ma il mio modo di esprimermi.

 

Quali sono i suo riferimenti fotografici e come definirebbe il suo stile?

 

 

Nella mia vita di fotografo ho come riferimenti la fotografia documentaria americana, la Scuola di Düsseldorf per il Nord Europa e Luigi Ghirri per l’Italia. Mi definisco un fotografo documentarista: mi occupo di ricerca intorno al territorio, in quanto espressione di quello che l’uomo fa e di quello che l’uomo vive. La mia attenzione è puntata sull’intervento dell’uomo: in questo senso il territorio è il frutto del nostro lavoro, e attraverso questo soggetto posso raccontare quello che noi facciamo e quello che è la nostra epoca. In particolare, sebbene da qualche anno abbia iniziato a lavorare anche all’estero, al centro dei miei interessi è il territorio italiano.

 

Territorio cui è dedicata la mostra attualmente esposta a Cortona, “Teatro d’Italia”…

 

 

Sì, un progetto attraverso cui ho voluto documentare, con i miei scatti, i tratti che fanno l’unità del nostro territorio, piuttosto che quelli che lo dividono. Un’unità che ho trovato proprio nella molteplicità: ovunque il nostro Paese è caratterizzato dalla coesistenza di culture e storie differenti, che lo hanno attraversato e hanno lasciato la loro traccia. È la ricchezza del nostro patrimonio culturale che ci unisce.

 

E l’Italia contraccambia questa attenzione? Nel nostro Paese il lavoro dei fotografi e la fotografia come forma d’arte sono sufficientemente valorizzati?

 

 

L’Italia è molto indietro da questo punto di vista. Nonostante stiano nascendo e si stiano affermando qui fotografi di primissimo piano a livello internazionale, la fotografia continua a essere riservata a nicchie ristrette di addetti ai lavori, come se non fosse un’arte sufficientemente nobile da meritare l’attenzione del pubblico a 365 gradi. È un peccato, perché quando si organizzano mostre o presentazioni di libri rivolti a un pubblico più vasto, questi eventi destano sempre grande interesse e curiosità, ma è un interesse difficile da coltivare e da mantenere vigile e vivo nel tempo. Ci sono comunque soggetti che tengono in grande considerazione la fotografia come forma d’arte: il collezionismo è diventato un punto di riferimento per moltissimi fotografi, che si finanziano attraverso i lavori fatti per committenze di questo tipo. Ma l’attenzione alla fotografia viene più da singoli privati piuttosto che dai giornali e dai media. Non c’è paragone tra il livello di interesse che la fotografia riesce a suscitare in Italia e quello che le viene riservato nei Paesi anglosassoni o in Francia. Io vedo molto la differenza tra la reazione che i miei lavori destano in Francia e in Italia, e questo non dipende dalle capacità del gallerista di promuoverlo: in Italia il pubblico non sembra ancora pronto ad accogliere la fotografia come forma di espressione artistica tout cour. Io amo molto lavorare qui, ma seppur mi ha dato grandi soddisfazioni, il territorio italiano è difficile da questo punto di vista.

 

Quali sono le specificità della fotografia rispetto alle altre forme dell’arte visuale?

 

 

La fotografia ha una caratteristica fondamentale: non può prescindere dalla realtà, anche se chiaramente è una realtà interpretata dal fotografo e dunque soggettiva. Certo, magari l’artista ha una capacità di visualizzazione talmente fuori dall’ordinario che ha la facoltà di trasformare la realtà che fotografa rispetto a quella che è veramente, ma bisogna comunque partire da una base reale. La fotografia è un’indagine, un interrogarsi su questa realtà, o anche solo un prendere spunto da questa realtà per poi costruire la propria storia, mescolando quello che si ha attorno e quello che si è. Io parlo da fotografo che utilizza la fase di elaborazione successiva, cioè il photoshop, in maniera esclusivamente funzionale alle immagini, e quindi in modo leggero – conosco fotografi che invece partono dalla fotografia e costruiscono attraverso il photoshop qualcosa di assolutamente immaginario, ma questo è altro da quello che intendo io come fotografia. Per un fotografo come me che ha un legame forte con il reale – io per molti anni ho fatto reportage – questa è una delle caratteristiche più importanti della fotografia. Mondi anche molto personali che il fotografo immagina e cerca di esprimere nei suoi scatti  devono avere un legame inscindibile con la realtà: questo aspetto è estremamente affascinante. Nelle altre forme d’arte, sebbene non siano sciolte dal reale, c’è più libertà.

 

Quando si sviluppa un progetto, si tratta semplicemente di realizzare un piano che si ha già in mente o prevale l’aspetto della scoperta?

 

 

Due sono i piani su cui si lavora: uno più tecnico di visualizzazione del progetto, e da questo punto di vista ho in mente il risultato che voglio ottenere e non me ne discosto molto; poi c’è il piano di evoluzione del progetto, il cui sviluppo può durare molto nel tempo, come è successo nel caso di “Teatro d’Italia”. Dal primo scatto all’ultimo sono passati diversi anni, durante i quali ci sono stati non solo dei cambiamenti miei personali e quindi anche delle evoluzioni nella stessa progettualità, ma anche delle sorprese: ho scoperto delle situazioni che non conoscevo e in cui mi sono imbattuto per puro caso. Esistono insomma entrambi questi rapporti: esiste una certezza assoluta, nel senso che quando inizio un progetto so già cosa farò e come lo vedrò, ma anche una casualità, perché in corso d’opera mi lascio portare la mano.

 

17 agosto 2012

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