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Demetrio Paparoni, ”La libertà d’espressione dell’artista non è mai assoluta”

Gli artisti trovano sempre uno spazio per la libertà, ma la loro non è mai libertà totale, perché spesso agiscono sotto paura di ritorsioni. Sono diversi gli esempi elencati da Demetrio Paparoni, grande esperto d'arte contemporanea, saggista e curatore di mostre, nel suo libro ''Il bello, il buono e il cattivo''...

Il saggista e curatore di mostre d’arte contemporanea ci parla del suo ultimo libro, “Il bello, il buono e il cattivo”, in cui analizza i condizionamenti dell’arte da parte del potere nell’ultimo secolo

MILANO – Gli artisti trovano sempre uno spazio per la libertà, ma la loro non è mai libertà totale, perché spesso agiscono sotto paura di ritorsioni. Sono diversi gli esempi elencati da Demetrio Paparoni, grande esperto d’arte contemporanea, saggista e curatore di mostre, nel suo libro “Il bello, il buono e il cattivo” (Ponte alle Grazie), dove l’autore analizza come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Lei sottolinea che questo condizionamento si esercita non solo all’interno dei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie. C’è una differenza tra il modo in cui i sistemi democratici hanno influenzato gli artisti e hanno cercato il loro sostegno e quello adottato dai totalitarismi?
Non si può capire come e perché la politica sia sempre stata interessata al controllo del lavoro degli artisti se non si comprendono contestualmente le valenze formali che ne caratterizzano il lavoro. Per questo nel libro racconto di fatti realmente accaduti legati al lavoro degli artisti, ma nel contempo filtro questo racconto attraverso le dinamiche della storia e la questione formale insita nelle opere.
I sistemi totalitari hanno imposto agli artisti le loro scelte, li hanno costretti ad adeguarsi a un canovaccio, hanno usato la censura come strumento coercitivo; i sistemi democratici invece fanno raramente uso della censura, e quando se ne servono lo fanno in modo tale da farla sembrare una tutela dei valori umani. Per capire come una democrazia possa servirsi dell’arte, strumentalizzandola per i propri fini propagandistici basti pensare all’Espressionismo astratto americano, che la CIA ha promosso in Europa a suon di dollari (anche se ufficialmente era il MoMA a offrire mostre ai musei europei, con trasporto e cataloghi pagati). Pollock che saltellava sulla tela facendo sgocciolare il colore ascoltando Jazz esprime un’idea di libertà che era negata ai pittori realisti sovietici, costretti a dipingere uno per uno i peli dei baffi di Stalin. Come si può capire, anche un groviglio di segni totalmente astratti può promuovere un messaggio marcatamente politico.
La questione oggi si pone in maniera diversa, in quanto il vecchio sistema ideologico è venuto meno. Negli anni Novanta poi è venuta meno l’idea dello stato nazione e la finanza internazionale è diventata un vero e proprio potere sovranazionale. È da ingenui pensare che con il postmoderno sia finita l’era delle ideologie. Oggi l’artista si trova a fare i conti con quella che io chiamo ‘l’ideologia della nuova finanza internazionale postideologica’. Se non si comprende com’è cambiato il mondo negli anni Novanta non si comprenderà perché oggi nella postazione che una volta era di Peggy Guggenheim c’è François Pinault, e non si comprenderà perché la prima, dagli anni cinquanta in poi, ha sostenuto che i grandi artisti erano solo gli americani, mentre per il secondo la nazionalità degli artisti è irrilevante.

Guardando alla nostra attualità, può aiutarci a capire in che modo l’arte è influenzata dal nuovo potere rappresentato dalla finanza internazionale?
Pensi a Damian Hirst, su cui mi soffermo proprio nel capitolo del libro che ha per oggetto le relazione che l’arte ha con ‘l’ideologia della finanza postideologica’. Per far capire le implicazioni ideologiche del lavoro di Hirst ho dovuto innanzi tutto spiegarne il lavoro sul piano formale, concettuale, tecnico e contenutistico. Ho adottato un linguaggio comprensibile anche a chi di arte contemporanea non sa nulla. Il libro ha del resto anche un’impronta didattica. Ho portato numerosi esempi che dimostrano che Hirst si autopromuove con le stesse strategie con cui le multinazionali impongono un prodotto sul mercato globale. Lui ha fatto del suo nome un vero e proprio marchio commerciale. Ovviamente non è il solo a muoversi in questa direzione. Ma c’è anche chi si muove in direzione opposta. Cattelan, per esempio, con il suo lavoro contrasta l’ideologia della nuova finanza internazionale postideologica. Questo non implica che quello di Hirst sia un cattivo lavoro, come non è vero che tutto quello che fa ha una valore artistico. Il giudizio sull’opera deve riguardare innanzi tutto gli aspetti formali e concettuali: tutto il resto, seppure aiuta a mettere a fuoco l’opera, è di secondaria importanza.  

Il fatto che il potere sia sempre così attento nel cercare di rendere l’arte organica al suo sistema presuppone che questa abbia una funzione etica, che sia in grado di influenzare effettivamente la società e le nostre vite. Secondo lei è ancora oggi così? L’arte è ancora in grado di plasmare il nostro sistema di valori e credenze?
Il mio libro dimostra che il sistema di valori a cui si rifà l’artista non necessariamente è positivo o spinge al bene. L’opera di un autore può anche influenzare negativamente la nostra vita, può portare messaggi terribili e nello stesso tempo essere grande arte. Il lavoro degli artisti va valutato sul piano formale e concettuale prima ancora che per i suoi contenuti. Quando guardiamo un’opera d’arte del passato non stiamo a pensare alle idee politiche dell’artista, chi serviva o se glorificava un committente tiranno. Non è più tempo di pregiudizi ideologici. Fino al 1980 il nome di Sironi in Italia non si poteva neppure fare nel mondo dell’arte, era escluso dai libri di storia dell’arte e le sue opere erano escluse dalle grandi mostre di arte italiana. Poi si è capito che il suo essere stato fino alla fine dei suoi giorni fascista è irrilevante rispetto al valore formale della sua opera, di gran lunga superiore a quella di artisti come Guttuso, esaltato  grazie al contenuto dei dipinti di matrice politica, nonostante nel dopoguerra abbia fatto un’arte formalmente debole.

Qual è lo spazio, se c’è, per la libertà dell’artista? In quale misura l’azione di un artista può definirsi libera?
Nolde era nazista, eppure fu considerato dal Terzo Reich un artista degenerato. Gli fu impedito di dipingere. Non potendo comprare colori a olio e tele realizzò prevalentemente acquerelli, che non avevano odore, contrariamente ai dipinti a olio, e che si potevano nascondere facilmente. Erano gli stessi anni in cui Breker e Ziegler erano famosissimi perché funzionali alla propaganda politica, che li promuoveva, ma sono anche stati considerati artisti mediocri dopo la caduta del nazismo. Oggi di loro si ha scarsa memoria.
La libertà dell’artista è nel linguaggio, non nel contenuto. Nolde ha scelto di essere un artista libero perché non ha accettato di assoggettare la sua arte alle esigenze della politica. L’esempio di Nolde dimostra che quando un artista cerca uno spazio di libertà lo trova comunque, seppure tra limitazioni fortissime. Basti pensare a quanto è accaduto nella Cina degli anni Novanta, quando la censura era ben più pesante di quella odierna.  
Nel libro mi soffermo tra l’altro su cosa accadde nel 1974 a Mosca, quando ci fu la cosiddetta ‘mostra dei bulldozer’, un’esposizione a cielo aperto che si tenne in un bosco urbano, organizzata da un gruppo di artisti non allineati ai canoni del realismo socialista. Le opere esposte furono spazzata via da bulldozer guidati da militari in tuta da giardiniere. Nel libro c’è una straordinaria testimonianza inedita di Vitaly Komar su quanto accade quel giorno.
La questione del rapporto linguaggio-contenuto cambia ovviamente se ci rapportiamo alla Cina di oggi. Se cambia il contesto geopolitico, cambiano i criteri di valutazione. Per quanto concerne la Cina ho raccolto testimonianze dirette dei più importanti artisti cinesi di oggi, che hanno raccontato in prima persona le loro difficoltà e le strategie messe in atto per sfuggire alle maglie della censura.
In questi tre capitoli si può capire come gli artisti trovano sempre, in un modo o nell’altro, seppure tra mille difficoltà, spazio per la libertà. Ma la loro non è tuttavia mai una libertà totale, perché agiscono con la preoccupazione di subire ritorsioni. La libertà di espressione ha spesso costretto gli artisti a nascondere una parte di sé, non per viltà, ma per sopravvivere a sistemi solo apparentemente liberi. Si pensi agli espressionisti astratti, buona parte dei quali negli anni Cinquanta e Sessanta hanno dovuto tacere pubblicamente sulle matrici ebraiche del proprio lavoro. Nel libro ci sono in tal senso testimonianze di Robert Pincus-Witten, utili a capire perché solo nel 1975 è stato possibile dichiarare le matrici ebraiche dell’espressionismo astratto americano degli anni Cinquanta.

16 febbraio 2014

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