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A occhi aperti, quando la Storia si è fermata in una foto

Mario Calabresi, scrittore e giornalista, direttore del quotidiano La Stampa dal 2009 spiega così l'inedita mostra ''A occhi aperti. Quando la Storia si è fermata in una foto'', che trae ispirazione dal suo libro...

E’ stata inaugurata alla Reggia di Venaria a Torino il 26 luglio la grande mostra A occhi aperti, tratta dall’omonimo libro di Mario Calabresi. La rassegna, in collaborazione con Contrasto e Magnum Photos rimarrà aperta fino all’8 febbraio prossimo

MILANO – Mario Calabresi, scrittore e giornalista, direttore del quotidiano La Stampa dal 2009 spiega così l’inedita mostra presso la Reggia di Venaria ”A occhi aperti. Quando la Storia si è fermata in una foto”, che trae ispirazione dal suo libro, dall’omonimo titolo: «Queste foto, che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, mi hanno spinto ad andare a cercare i loro autori per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla.» La mostra è stata realizzata in collaborazione con Contrasto e Magnum Photos.

IL CONCEPT – Mario Calabresi, appassionato di fotografia, ma anche e soprattutto di giornalismo e realtà, ha intrapreso un viaggio molto speciale: un viaggio profondo ed affascinante nella storia recente, cercando alcuni dei “testimoni oculari” che con il loro lavoro, e la voglia di scavare tra le pieghe della cronaca, hanno raccontato alcuni momenti straordinari del nostro presente in una serie di immagini (un centinaio circa) realizzate con gli occhi ben aperti sul mondo. Ne è nato un libro, A occhi aperti, appunto, che ha raccolto le interviste, vibranti e palpabili, a dieci grandi fotografi, dieci testimoni del nostro tempo: Abbas, Gabriele Basilico, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Don McCullin, Steve McCurry, Josef Koudelka, Paolo Pellegrin, Sebastião Salgado e Alex Webb.

INTERVISTA AAbbas. Se incontri la Storia da bambino, sei capace di riconoscerla per tutta la vita, sviluppi un istinto speciale che ti fa capire prima degli altri quando le situazioni stanno per raggiungere il punto di rottura. La sua carriera comincia alla fine degli anni Sessanta con la guerra del Biafra. E poi Vietnam, Bangladesh, Cile, fino al Medio Oriente con il racconto della rivoluzione iraniana.

Gabriele Basilico. Basilico è un’eccezione. Ho sempre seguito fotografi che fossero tormentati dall’attualità, dalla malattia di esserci quando le notizie si fanno Storia, e di certo nessuno di loro lavora con il cavalletto, una macchina fotografica 10×12 e scatta con il flessibile. Ma il risultato può essere sorprendentemente giornalistico: l’approccio più lontano può raccontarti il dramma della guerra civile libanese, la deindustrializzazione di Milano o il cambiamento del paesaggio francese. Passaggi epocali che spesso la cronaca non è in grado di cogliere.

Elliott Erwitt. Erwitt ha fotografato tutto e tutti. Nelle sue foto non c’è mai pesantezza, mai retorica, ma una
costante dose di ironia. E proprio dall’ironia, da una foto grottesca, comincia simbolicamente l’inizio
del viaggio di Erwitt nelle tensioni razziali americane, che sfoceranno nella segregazione del Sud degli Stati Uniti nel 1950, con tutto il suo carico di violenza e insensatezza.

Paul Fusco. «Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Fui investito da un’onda emotiva immensa, c’era tutta l’America che era venuta a piangere Bobby, a rendergli omaggio. I Kennedy avevano dato speranza alla gente e ora quella gente vedeva tramontare il sogno. Se ne andava con quel treno. Quel treno è stato il vero funerale, quello dell’America. È durato un’intera giornata, era fatto per il popolo. Era il Funeral Train».

Don McCullin. Più di ogni altro Don McCullin ha mescolato drammaticamente il lavoro con la sua storia personale: ogni scatto parla delle tragedie del mondo e dei fantasmi della sua infanzia di miseria e violenza. Il suo linguaggio è crudo e detesta il politicamente corretto, ma sentendo raccontare la sua vita si capisce come abbia potuto viaggiare e testimoniare gli orrori del mondo senza perdere la ragione. La sua storia lo ha vaccinato e gli ha permesso di resistere, ma la sua storia lo ha anche condannato a continuare a cercare il dolore, creando quasi una dipendenza.

Steve McCurry. Le foto di McCurry appaiono levigate, armoniose, serene, anche se raccontano di fame o inondazioni. Si potrebbe credere che il suo tocco magico sia quello di cogliere l’attimo senza sporcarsi. Poi lo incontri, e capisci che invece è dovuto scendere fino in fondo, nella fatica e nella sofferenza. A cavallo tra il 1983 e il 1984 realizza i suoi lavori più importanti, quello sui monsoni, il viaggio in treno in India e il famoso ritratto della Ragazza afghana: «L’incrocio di storie e situazioni del 1984 è stato, in senso positivo, la mia tempesta perfetta».

Josef Koudelka. La foto della macchina in corsa, che percorre Stalin Avenue, è la prima che Josef Koudelka, trenta anni, scatta quel 21 agosto 1968. La prima di uno dei più grandi reportage della storia della fotografia: la testimonianza della repressione della Primavera di Praga nel sangue. Duecento pellicole che costeranno al suo autore vent’anni di esilio. Koudelka avrebbe rivisto Praga soltanto nel 1991, quando i genitori erano già morti. A loro va infatti la dedica del suo libro Invasione Praga 68.

Paolo Pellegrin. “Se le tue foto non sono abbastanza buone significa che non sei abbastanza vicino”, diceva Robert Capa. Ho seguito il lavoro di Pellegrin in Palestina, in Libano, a Guantanamo, in Iraq, nelle periferie USA o nel Giappone dello tsunami, leggendo le sue immagini con quella frase di Capa che significa una sola cosa: esserci, essere in prima linea, aderire al soggetto, mostrarlo senza remore. Quando guardi una foto di Pellegrin non puoi restare distante, vieni trascinato dentro, nella guerra, nel dolore, nella desolazione. Ogni scatto non è solo, fa sempre parte di una storia, di un percorso.

Sebastião Salgado. «Avevo il sogno di andare in Africa perché molti brasiliani vengono da lì e perché milioni di anni fa eravamo un solo continente. Così nel 1973 ho lasciato il mio lavoro di economista a Londra per un viaggio di tre anni in Africa, con una nuova professione: fotografo. La mia fotografia consiste nel rispettare le persone, mostrando una storia. Dopo aver raccontato tutto questo dolore del mondo mi sono ammalato e per salvarmi mi sono imposto di testimoniare il bello, di mostrare a tutti l’incanto della natura».

Alex Webb. Per capire il confine tra il Messico e gli USA – “the Border” – e il suo fascino bisogna guardare le foto di Webb o leggere Cormac McCarthy, per scoprire luoghi di silenzio, di attesa, che sembrano non appartenere a nessuno. Quello che colpisce di più nei suoi racconti e nel suo approccio al mondo è la totale assenza di tesi da dimostrare, a guidarlo è l’atteggiamento del cercatore, con due soli strumenti sempre con sé: la curiosità e la pazienza. Per questo si definisce un fotografo di strada e non un fotoreporter.

31 luglio 2014

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