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Scrivere di Sicilia

Scrivere di Sicilia. Di miti e attualità. Di personaggi e persone. Scrivere di scrittori. Che magari hanno scritto di sé e di altri siciliani e di storie di Sicilia. Quasi un'ossessione. Da cui mette in salvo l'ironia...

Scrivere di Sicilia. Di miti e attualità. Di personaggi e persone. Scrivere di scrittori. Che magari hanno scritto di sé e di altri siciliani e di storie di Sicilia. Quasi un’ossessione. Da cui mette in salvo l’ironia.

 

Attitudine diffusa, tra i siciliani migliori. Prendiamo per esempio “I Pirandello del mare/ Ovvero l’enigma del nonno cambiato”, scritto da Mario Genco, firma nobile de “L’Ora”, poi del “Giornale di Sicilia” e adesso delle pagine palermitane de “la Repubblica”. La storia ricostruita è quella “di una sterminata dinastia palermitana di gente di mare”, di origini genovesi ma saldamente impiantata in Sicilia. Una grande e numerosa famiglia, rimossa dalla memoria pubblica del grande scrittore ma probabilmente non del tutto dimenticata se è vero, come Genco dimostra con acuta ricostruzione di documenti, fatti e tratti personali, parole dette e scritte, che proprio quei parenti e quelle abitudini familiari fecero spesso da stimoli e pretesti all’inquieto Luigi per costruire, in racconti e testi di teatro, caratteri controversi e storie contorte. Drammi. E sorrisi amarognoli. Genco sa giocare con Pirandello e tutti i suoi, cari e meno cari. Senza pedanterie da storico e critico. Con puntuta leggerezza, semmai. Appunto, con raffinata ironia.

 

Ironico, come al solito, anche Andrea Camilleri (guarda le coincidenze, la sua nonna era amica di Luigi Pirandello, che trattava con perfida disinvoltura: “Luigi, ma picchì ti vististi di marinaru?”, gli disse il giorno in cui lo vide in grande uniforme con feluca e spadino da Accademico d’Italia). Camilleri, dunque, in “La rivoluzione della luna”, edito da Sellerio, racconta una storia seicentesca, quella di donna Eleonora di Mora, vicerè femmina, bella e gelida, orgogliosa e determinata. Palazzi e tuguri, maggiordomi e donne del popolo, merletti e miserie, Sicilia antica e modernissime ansie di riscatto. Riti stantii. E miti che si rinnovano.

 

Di “Sicilia, la fabbrica del mito” scrive Matteo Collura, pubblicato da Longanesi. Tutto un via vai di Cagliostro e principe di Palagonia, Bellini e Vittorini, Majorana scomparso e il barone Agnello rapito, banditi alla Giuliano e mafiosi (anche con abito da monaco, quando non con coppola da tradizione). Siciliani convinti di essere perfetti, come ironizzava il principe di Salina? Ma che radici ha mai, una così sapida impostura? I siciliani, si sa, amano scrivere di sè (amano meno fare; e infatti la Sicilia ha un gran posto nelle migliore letteratura nazionale, un ruolo infimo nella storia dell’impresa e della buona economia produttiva).

 

Ci sono comunque siciliani eccellenti che si rivelano attivi e operosi. Grandi avvocati delle cause giuste e nobili, come Nino Sorgi di cui scrive bene il figlio Marcello in “Le sconfitte non contano” edito da Rizzoli: storie di battaglie politiche e civili, di impegno per difendere diritti e legalità, di sostegno partecipato all’avventura di un piccolo grande fiero giornale come “L’Ora”, di senso di responsabilità da “civil servant” tale da provocare le dimissioni da presidente di una grande banca siciliana per non avallare certe disinvolte concessioni di credito a clienti e “amici”. Scrivere di Sicilia, insomma, significa anche raccontare una buona orgogliosa Sicilia. Minoritaria, certo. Ma ancora viva. Nonostante tutto.

 

Antonio Calabrò   

   

30 marzo 2013

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