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Paolo Colagrande, ”Essere finalista al Campiello rappresenta una grande responsabilità”

“Un premio generoso e responsabilizzante, che ti porta davanti a grandi platee. Una prova molto utile, oltre che una grande fortuna, per uno scrittore”. Vuol dire questo essere protagonista del Premio Campiello secondo Paolo Colagrande...

MILANO – “Un premio generoso e responsabilizzante, che ti porta davanti a grandi platee. Una prova molto utile, oltre che una grande fortuna, per uno scrittore”. Vuol dire questo essere protagonista del Premio Campiello secondo Paolo Colagrande, scrittore e avvocato finalista del prestigioso premio letterario con  il romanzo “Senti le rane”. Una narrazione che è molte cose, a partire da una scrittura comica e pastosa. Chiacchiera da bar, analisi filosofica, burla, divertissement erudito e analisi delle umane manifestazioni. Già vincitore nel 2007 del Premio Campiello Opera Prima con Fídeg, suo romanzo di esordio, conosciamo meglio l’autore ed il suo ultimo libro.
  

Nel 2007 con il suo romanzo d’esordio ‘Fideg’ ha vinto il Campiello Opera prima, come si sente a trovarsi ora tra i 5 finalisti di un premio così prestigioso?
Nel 2007 ho partecipato al tour della cinquina come ospite, comodo e rilassato; non ho conosciuto patemi, era il mio primo romanzo e mi godevo la vacanza. La condizione di finalista, comunque la si viva, è più complessa: il confronto con altri autori è un’esperienza preziosa e gratificante, ma è anche una delicata prova caratteriale per chi, come me, ha una comunicativa mal registrata e una costituzionale insofferenza alla competizione e alle sue regole naturali. Il Campiello è un premio generoso e responsabilizzante, che ti porta davanti a grandi platee, di fronte alle quali puoi sentirti fuori misura, piccolo, inadatto, ma non puoi permetterti il lusso delle tue paturnie. Una prova quindi molto utile, oltre che una grande fortuna, per uno scrittore.
 
Da dove nasce l’idea di scrivere ‘Senti le rane’? Qual è l’obiettivo principale di questa scrittura? Pensa di averlo raggiunto a pieno?
Quando vedo un mio libro pubblicato mi viene spontaneo chiedermi da dove sia saltato fuori e quando. All’origine c’è sempre un’idea imprecisa – non un progetto e neanche un obiettivo da raggiungere – che nasce da un impulso forte nel momento stesso in cui si manifesta ma che già a breve distanza si perde e sfuma, per prendere lentamente forma nella storia che racconti, nelle scene che rappresenti, nei personaggi che metti in scena. Credo di poter dire che all’origine di Senti le rane ci sia un’immagine in movimento veloce: un uomo si alza da un tavolo dove stava chiacchierando con altri due, che restano seduti e cominciano a parlargli alle spalle.  Da questa sequenza semplice (ma già carica di suggestioni) affiora la figura di un prete, con la veste lunga e il mistero di una vocazione. I due uomini  seduti si chiameranno Gerasim, ebreo agnostico e logorroico che assume il ruolo di narratore, e Sogliani, contronarratore acido e lapidario. L’uomo che si è alzato si chiamerà Zuckermann, ebreo convertito al cristianesimo e diventato prete, anche se nel momento in cui si alza dal tavolo non lo è più da circa trent’anni. La storia di Zuckermann, raccontata da Gerasim e Sogliani, cammina in parallelo alla storia di una comunità di fedeli dentro una località di bassa villeggiatura balneare, e segue i ritmi di un mistero da sciogliere, fino alla caduta, rumorosissima, del santo travisato e di un’ideologia popolare. Nella storia si muovono la Romana Bonifazzi, genuina bellezza animalesca, due parrocchiani devoti, genitori della Romana, un meccanico polifunzionale, un notaio, ma  soprattutto una perpetua quasi cieca, Dianora: prenderà lei il filo del racconto per svelare il passato e accompagnarlo fino al presente, cioè alla farsa spirituale di Zuckermann, sulla riva di un fosso…
Volevo una storia più o meno così, con una trama da raccontare come a me piacerebbe che mi venisse raccontata, dove non c’è posto per una voce narrante classica, educata e protocollare, controllata e distante: la storia è affidata a Gerasim e Sogliani, con i loro vaneggiamenti e le loro divagazioni.
 
Per la caratterizzazione dei personaggi del suo libro, in particolare di Zuckermann, ha tratto ispirazione da persone che conosce o di cui ha conosciuto le storie o è tutto frutto di fantasia?
Mia figlia quando gioca con le bambole si chiude in camera e pretende un livello massimo di privacy; da fuori si sente solo un parlottio monocorde. E’ un po’ quello che penso della scrittura e del suo formarsi: “Scrivere è che ti lascino piangere e ridere da solo”, dice Ramón Gómez de la Serna.
I personaggi, i luoghi delle storie, sono giocattoli animati da un bambino nel segreto della cameretta (il bambino è il narratore e la cameretta è la sua testa). In questa dimensione prevalentemente autistica non c’è quasi mai replica di fatti o di persone reali. Non ho conosciuto nessuno che corrisponda a Zuckermann, così come non esiste una località di mare che si chiami Zobolo Sant’Aurelio Riviera o che le somigli. Ma nei personaggi, nel loro modo di vivere o di parlare, si muove qualcosa di già visto, elaborato e in qualche modo archiviato, ci sono sentimenti già esplorati: nelle storie c’è la sintesi di un pianeta che, al di là della geografia o del contesto narrativo, rappresenta l’impasto fondamentale di tutto quello che scrivo, ed è un impasto sempre in divenire. La realtà è solo lo sfondo e l’occasione per inventare o reinventare. Ho invece conosciuto il muratore-filosofo Paterlini, che però non è un personaggio: è un nume invisibile, menzionato da Gerasim subito all’inizio: ”Mi chiamo Gerasim, e quando ero piccolo le cose le chiedevo a Paterlini”. Le risposte di Paterlini non attingono a nessuna dogmatica pedagogica, “pescano nel mistero universale”.
 
All’interno del libro lei scrive che il ‘male dorme nascosto negli esseri umani normali o anche virtuosi’. Pensa che il fatto che determini che questa parte malvagia emerga o meno siano le esperienze della vita che ci colpiscono o c’è anche dell’altro?  Ci sono delle persone così forti da tener nascosta la parte malvagia nonostante quello che gli possa capitare?
Se il male fosse prerogativa dei mostri, dice Gerasim, basterebbe farne l’anagrafe: e in questo modo resterebbe un tema di studio, un’ipotesi da laboratorio. La letteratura affronta spesso l’argomento. Nabokov riteneva che estirpare il male fosse quasi come scarnificare l’uomo, mutilarlo, quindi ucciderlo; e nel racconto “Una storia Noiosa” Cecov fa dire al suo pratogonista: “Tutto quello che c’è di buono al mondo non può esistere senza il male”. Detto questo, l’argomento diventa scabroso e ogni teoria è a rischio. Nel romanzo, Gerasim cita un passo di canzone popolare (“… tornerà ‘sta primavera con la spada insanguinata”) per forzarne il significato e esprimere una teoria dell’esistenza: tutti noi, al prescindere dalla nostra storia personale e dalle contingenze, semplicemente vivendo, ci lasciamo dietro le spalle una scia di sangue altrui; ce ne accorgiamo in ritardo, a cose fatte, e non riusciamo a capire come sia successo, visto che siamo così buoni. Cioè, si fa sempre un po’ di male anche quando ci si comporta da cittadini virtuosi. La vocazione sacerdotale giovanile di Zuckermann, votata al bene, ha seminato più vittime della sua vocazione senile cialtrona, votata alla vanvera. In questa fisiologica convivenza è facile equivocare o confondersi, e il binomio bene/male può diventare parodia di se stesso: a un certo punto della romanzo c’è un buon samaritano che vuol medicarti a tutti i costi le ferite con miele e vino, anche se non sei ferito, ti vuole propinare una bevanda salutare anhe se non hai sete, la sua insistenza sconfina nella molestia pura, una specie di stalking inutilmente terapeutico che sfinisce il malcapitato, costretto a dargli retta e a farsi medicare da sano.  Gerasim e Sogliani, volontariamente o non, buttano tutto in farsa: ma spesso è grazie alla farsa che si capisce il mondo.
 
Tra i tanti complimenti che ha ricevuto per il libro, ce n’è uno che le fa particolarmente piacere?
Trascrivo, per non rovinarlo, un brano dello scrittore Alessandro Zaccuri:
“Si è convinti di essere nel bel mezzo di una commedia, e invece ci si sta inoltrando in una tragedia che invoca l’esercizio della pietà”. Ecco, è esattamente così che volevo fosse intesa la figura di Zuckermann, e quando lettore e romanzo si incontrano così bene, l’autore è contento. Poi ci sono complimenti espliciti, ma preferisco questo genere.
 
C’è un nuovo genere letterario in cui si vorrebbe cimentare magari già  a partire dal suo prossimo libro? Se no, hai già  in mente la trama del suo prossimo lavoro?
Conosco bravissimi scrittori che pubblicano un libro solo quando ne hanno già un altro pronto e finito. A me non capita perché sono poco lungimirante e molto disorganizzato. Per ora ci sono tracce, più o meno profonde, alcune già diventate pagine. vediamo quale si fa avanti per prima.
 
21 agosto 2015
 
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