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Mauro Corona, ”Scrivo per non pensare alla difficoltà che ho a stare al mondo”

“E’ un provocatore, gli piace essere controverso” così Gian Mario Villalta presenta Mauro Corona al Teatro Verdi di Pordenone per poi aggiungere...

PORDENONE – “E’ un provocatore, gli piace essere controverso” così Gian Mario Villalta presenta Mauro Corona al Teatro Verdi di Pordenone per poi aggiungere: “diciamo pure tutto quel che si vuole di lui, ognuno c’ha la sua opinione e non importa, ma una cosa la si deve dire, una cosa che purtroppo molti di noi e forse anche io gli invidiamo è che Mauro Corona ha un mondo e sa raccontarlo.”

LA VOCE DEGLI UOMINI FREDDI – Mauro Corona, autore di ventitré romanzi, con “La voce degli uomini freddi” (Mondadori, 2013) affascina e incanta il lettore raccontando un mondo perduto e bellissimo. – “Questo libro l’ho scritto in forma di fiaba, senza puntare il dito perché altrimenti avrei dovuto fare un saggio e un saggio mi avrebbe sconquassato l’anima, avrei puntato il dito, avrei inveito, avrei insultato questi farabutti che fecero duemila morti ed ero stanco di insultare, sono stanco di fare cagnara. Allora ho scritto in forma di fiaba, che fa ancora più male perché era gente inerme che è stata spazzata via.”

L’IDEA CHE HA FATTO MUOVERE E COSTRUIRE QUESTO LIBRO – L’anno scorso c’è stato l’anniversario dei cinquant’anni da quella fatidica notte del nove ottobre. Mauro, che allora aveva tredici anni si ricorda ancora tutto, non dimentica, in lui è vivo il ricordo di quel mondo autentico fatto di fatiche e cose semplici. “Volevo ricordare il Vajont, ma non in generale. Il paese di Erto. Volevo scrivere la storia della mia gente di allora. Ho cercato di fare un omaggio a questo paese: Erto, che significa ripido, che viveva nell’ombra di questa valle remota, sconosciuta a tutti.”

CONSERVARE LA MEMORIA E LA MANUALITÀ  – Corona combatte perché la memoria non venga perduta  “Imbalsamarla per chi viene dopo, quantomeno per soddisfare quel sentimento naturalissimo che è la curiosità.” così come la manualità “Quelli mettevano via la farina, il frumento, la carne essiccata. E filavano la lana, facevano le maglie; facevano le case, i serramenti, il mobilio. Facevano le pellicce con i camosci, perché andavano a caccia per mangiare e il pezzo più buono andava al medico, se c’era veniva da Cimolais a cavallo, oppure al prete perché quelli erano da tener buoni, quindi vedete – erano autonomi.  L’esempio di come si può stare benissimo nella natura. L’unico problema era un parto difficile, la donna moriva perché non c’erano strade. L’ha fatta l’ingegner Zenari la Valcellina, 1902.”

 

UNA FIABA CHE HA MOLTO DI REALE – “Nevicava sempre, però stavano bene. Avevano un bene prezioso. L’acqua. Questo bene comune che era il torrente, il Vajont che poi è passato alla storia per altre cose. E questo è un dolore che ancora mi fa male. Ma era lì, faceva girare mulini, segherie, i battiferro, i torni. Era tutto un movimento, sembravano persone, mostri, personaggi che si muovevano. Sul Vajont c’era questo villaggio, un altro paese che viveva. La zona degli artigiani, perché c’era il torrente che dava la forza. Era una meraviglia. Io, mi sembra di respirare quando lo vedo.” A queste sue ultime parole, chiude gli occhi. Tira una boccata d’aria. Sta ricordando. “La notte si sentiva questa musica, anche incattivita quando pioveva, però vedete: un mondo. Poi scoprirono che c’era l’acqua e vennero a prendersela.” Ne parla con fervore. Lo sguardo serio, penetrante. Da l’impressione di guardare ognuno dei presenti dritto negli occhi come a domandare se riusciamo anche a noi a vedere quel mondo distrutto.

 

LA FESTA DEL MIELE – “Era un rito. Con le mani impiastricciate di miele, si tenevano. Era l’unità.  La colla, una colla dolce. Chi voleva andare via non si doveva sporcare le mani col miele. E se porgevi la mano e l’altro la sentiva senza il miele voleva dire che tu avevi scelto di andartene. Vedete quante cose di una profondità semplice, che non è di superficie. “

 

 LE MANI, IL PUNTO FOCALE DI QUESTI UOMINI FREDDI –  “Quando uno moriva, toglievano il manico ai suoi attrezzi, alla sua zappa, al suo piccone. Toglievano il manico perché lì, in quel manico c’è il DNA, c’è tutta la sua fatica. Conservavano la pipa perché quelle labbra avevano toccato questa pipa, avevano baciato, avevano inveito, avevano bestemmiato. Le labbra sono uno strumento micidiale, quindi era una metafora per dire che un oggetto che appartiene ad una persona, riceve dentro –  e questa è un’idea mia, pur sempre strampalata; riceve il suo tocco, la sua anima.”

 

“QUESTI PER ME SONO VALORI” – “Io, se potessi avere qualcosa di grandi miti, per esempio Michelangelo” dice: “a me non interesserebbe una scultura di Michelangelo, o un disegno. No, il disegno è di Michelangelo, ma pensate il mazzuolo di Michelangelo. Dove l’ha tenuto in mano. Io vorrei avere un mazzuolo anche del mio maestro di scultura Augusto Murer. Non la scultura, c’è distanza con la scultura, ma col mazzuolo no. Capite?” ci chiede, assorto nel suo pensiero “La penna di Joseph Roth. La penna. Joseph Roth, a Parigi, prima di morire di alcolismo disse: ‘Dov’è la mia penna?’ Ecco, s’aggrappava lì lui. Non a quello che aveva scritto, ma anche allo strumento. Pessoa che chiede i suoi occhiali un minuto prima di morire.”

 

CORONA E L’AMORE – “Io sono molto attento a parlare dell’amore” Ci confessa questo augurandoci  tanta felicità in fatto di amore, poi aggiunge: “Forse sono un uomo sfortunato, ma chi mi ha detto ‘ti amo’ mi ha reso la vita un lavoro usurante.” Lo dice sottolineando la parola “usurante” e a questa frase il pubblico applaude sorridendo e facendo cenno di sì con il capo. Poi si fa più serio: “Certo ci sono delle difficoltà, ma l’amore dovrebbe essere silenzio e accettazione. Donazione totale, invece lasciamo entrare paure, insicurezze, gelosia, senso del possesso. L’amore è una cosa seria. In questo libro do speranza, perché se c’è, dura, ma lo dobbiamo far durare noi. Eliminando, scrollandoci via queste scorie di ruggini paurose come il cane si scrolla l’acqua di dosso e allora rimane l’osso di questo amore. Ci possono essere scontri, ma vanno aggiustati va detta quella parolina ‘perdono’ che non si sente più”.

I BADILANTI – Leggendo “La voce degli uomini freddi” troveremo la storia dei due badilanti, innamorati sempre in baruffa. Riguardo a questa storia, che è una meravigliosa morale sull’amore Mauro dice:

“Scrivo queste cose che mi piacerebbe succedessero a me. Guardate che un libro, di qualsiasi genere, è un’intervista non richiesta. Perché la scrittura è così, ti rivela. Questi due amanti erano sempre in baruffa perché erano fragili, probabilmente perché si volevano bene, ma non è quello il modo, allora lì, li punivano ed erano sempre a sbadilare neve finché un giorno, sparirono. Li ritrovano dopo un’eternità. Uniti, solo le ossa, ma erano uniti. Ecco l’amore nonostante le difficoltà. Invece abbiamo ormai la stanchezza di insistere, di resistere, di appianare, di aggiustare e piuttosto che impegnarci  tagliamo.”

 

BISOGNA EDUCARE AD AMARE – “Perché quando un bambino sente il papà che dice alla mamma: ‘Tu stai zitta che non devi  parlare!’ è già educato, è già finito. Il bambino dai tre ai sei anni è una spugna, tutto gli resta dentro. Poi ci sarà la vita a strizzarlo e usciranno le cose negative che ha assorbito lì, in famiglia. Non diamo la colpa alle scuole, sono le famiglie. Quando un papà urla: ‘sporco negro’ a Balotelli durante una partita, il bambino crede che i negri siano sporchi e crescerà con quella idea, quindi siamo noi i responsabili dei figli che avremo.”

 

“SCRIVO PER NON PENSARE ALLA DIFFICOLTÀ CHE HO A STARE AL MONDO” – “Ho sempre recitato la parte del coraggioso, però io faccio molta fatica a stare in vita e non è un’esagerazione. Non è che abbia voglia di morire, per carità. Trovo, e più divento vecchio più trovo difficoltà coi miei simili, con la famiglia, con gli amici, col paese. Faccio fatica.” Ci confessa. “Per ovviare e non pensare a queste cose, ne faccio delle altre. Scalo le montagne, faccio sculture, vado a camminare, vado a legna, scrivo.” – “Ho scritto ventitré libri, ma non ho fatto la minima fatica. Io mi siedo e sento come una voce che mi suggerisce. Sándor Márai diceva: ‘La letteratura richiede 80% vanità’ e qui voglio che gli scrittori dicano la verità ‘e il 20% come qualcuno che ti suggerisce.’ E a me succede questo, ho scritto “Storia di Neve” (Mondadori, 2008) senza una scaletta. Undici mesi, ottocento pagine.” Poi ci pensa e aggancia subito: “Lì bevevo tre bottiglie a notte, probabilmente era la follia alcolica che mi dettava. Preferisco non scrivere più niente che tornare a quei tempi. Ve lo dico sinceramente.”

 

“RICORDARE CHI ERAVAMO, QUESTO HO FATTO NEI MIEI LIBRI” – “Realizzo che c’è un disfacimento, una discrepanza della comunità e la voglio far rivivere anche per tirar loro le orecchie. Guardate che eravate così, per esempio c’era il carnevale di Erto, ora non esiste più. Non è necessario tenerlo in vita se si è sciolto, se si è annacquato, se è scomparso. E’ una forzatura tenerlo in vita, ma ricordarlo, sì”  Lo vedo amareggiato, deluso mentre dice: “Le cose si consumano, si  logorano, si stancano. Ora, io non voglio mica puntare il dito. Dire che bisogna farle rivivere, come un amore che è finito può rivivere, ma anche no. Quindi non è necessario,  ma ricordarle, sì.”

Impossibile per chi ascolta non applaudire a queste parole, parole che dovrebbero far riflettere, parole di un uomo che ha pagato cara la sua saggezza.

 

Antonella Colcer

25 settembre 2014

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