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Mario Calabresi. “Cosa consiglio ai giovani? Imparate un metodo, siate e elastici e figli del vostro tempo”

C’è la storia degli zii volati in Africa negli ’70 a fondare un ospedale, la storia di Aldo, un giovane che non brillava a scuola ma che ha saputo riqualificare il mulino di famiglia trasformandolo in un’impresa di successo...

Abbiamo intervistato Mario Calabresi, autore di “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”: una raccolta di storie vere di giovani che hanno trovato il loro posto nel mondo

 

MILANO – C’è la storia degli zii volati in Africa negli ’70 a fondare un ospedale, la storia di Aldo, un giovane che non brillava a scuola ma che ha saputo riqualificare il mulino di famiglia trasformandolo in un’impresa di successo, c’è la storia della ragazza andata in Cina a commerciare vino italiano, un’avventura molto più complessa di quanto potrebbe sembrare. Le storie di giovani che si sono messi in gioco, hanno affrontato a viso aperto il futuro e hanno trovato la loro strada nel mondo. Ce le racconta Mario Calabresi, nel suo ultimo libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”, edito da Mondadori.

 

Ci parli del suo libro: com’è nata l’idea di scriverlo? Che significato ha il titolo?

Mi era rimasta impressa una frase di un ragazzo in un liceo: “Per noi oggi non c’è più spazio” diceva. “L’italia è un paese dove non si può più fare nulla, la mia generazione non ha possibilità di fare la differenza.” Come si fa a fare la differenza. Poi ho scoperto una storia degli anni ’70, di quand’ero bambino. È la storia dei miei zii: entrambi medici, che quando si sono sposati hanno compilato una lista di nozze. Te la leggo: 22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio,  lampada operatoria, tutti gli attrezzi per la chirurgia. Sono arrivati in questo posto in cui non erano mai stati: Matany, in Uganda. Il dottor Corti, che gestiva un altro ospedale nel Paese, stava cercando tre coppie di medici per aprire un ospedale: cercava tre coppie perché il posto è talmente duro, e inospitale che nessuno avrebbe potuto resistere per più di tre mesi, e così avrebbero potuto fare dei turni. Invece i miei zii dissero: “Lo facciamo da soli”. Il titolo del libro è presto spiegato: loro arrivarono in questo posto dove non c’è niente. Ma proprio niente. Terra rossa, arbusti spinosi e una piccola costruzione dove 3 suore comboniane distribuivano medicine a questi minuscoli villaggi di capanne di fango. La prima lettera che scrissero ai genitori è una lettera in cui descrivono questo luogo e, incredibilmente , si concludeva con questa frase: “non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”. Ci hanno provato davvero: hanno messo su questo micro-ospedale con 22 letti. Io ci sono andato a Matany, e ho visto coi miei occhi le conseguenze di quella lista di nozze: l’ospedale c’è ancora. Oggi conta 284 posti letto, 7 medici, 65 infermieri, 8 ostetriche, 4 fisioterapisti. Visite ambulatoriali lo scorso anno: 39.352. 10.000 ricoveri, 2.089 operazioni chirurgiche, 1416 bambini nati. Questa storia mi è sembrata la risposta migliore: ma un ragazzo di 26 anni può fare la differenza? Sì, può farla. Nella sua vita e in quella di 1416 bambini nati nell’ultimo anno. I gesti hanno delle conseguenze.

 

Probabilmente questa storia sarebbe bastata da sola a scrivere un romanzo. Perché ha voluto raccontarne delle altre?

Nella mia testa venivano fuori continuamente delle obiezioni: ma che risposta è? Ti poniamo un problema di oggi e ci tiri fuori una storia di quarant’anni fa? Ti poniamo un problema dell’Italia, e ci parli dell’Uganda? Ti poniamo un problema della quotidianità e cosa fai, ci consigli di andare in Africa e aprire un ospedale? No, volevo parlare del piacere che si prova a fare delle cose in cui si crede, buttaando il cuore oltre l’ostacolo. Volevo metterci delle storie più “normali”, più italiane, che raccontassero di persone che hanno avuto la capacità di “immaginare” laddove invece tutto e tutti gli dicevano: “Non si può fare”. Ho raccontato le storie di ragazzi di oggi, di venti o trent’anni, che non riescono a trovare spazio qui e vanno ovunque nel mondo. Fa quasi impressione: se vai a Londra, non esiste un bar, ristorante o birreria che non abbia i ragazzi italiani dietro il banco. Un giornale di Amsterdam l’anno scorso ha titolato “Tzunami” un articolo sui giovani italiani che arrivano per cercare lavoro in Olanda. La cosa che più mi ha colpito di questi ragazzi è che vanno a provare strade nuove che nessuno ha mai tentato. Andare a Londra a lavorare in un pub non è facile, ma è una soluzione “comoda”: Londra è vicina, puoi tornare a casa con un volo low-cost… Ma andare in Cina a vendere il vino  italiano (come la ragazza di una storia che ho scritto) è davvero un’avventura.

 

Cosa ti senti di consigliare ai giovani italiani?

Mi colpiscono questi mondi nuovi: quante volte mi capita di parlare con dei genitori che alla domanda “Che lavoro fa tuo figlio?” rispondono che non l’hanno capito tanto bene. Quanti lavori ci sono di cui non si capisce nemmeno il nome? Il mese scorso è stato pubblicato un rapporto del Ministero dell’Economia e del Lavoro americano sull’orientamento degli studenti che entrano nelle scuole superiori. Questo documento ufficiale sostiene che è inutile far scegliere una specializzazione agli studenti che iniziano le scuole superiori, perché da un terzo alla metà dei lavori che faranno tra dieci anni, una volta finita l’università, non sono ancora stati inventati. Il mondo cambia talmente in fretta che è inutile scegliersi una specializzazione. Fa impressione… Cosa mi sento di consigliare? Imparate un metodo, siate elastici. Si stanno smontando certezze e mondi lavorativi consolidati. Qual è il punto? Ci sono mondi nuovi, bisogna capirli e interpretarli. Tutto questo non è nient’altro che essere figli del proprio tempo: non guardare al mondo di oggi con le lenti dei propri genitori ma con i propri occhi.

 

25 marzo 2015

 

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