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Marco Scotini, Direttore del Dipartimento di Arti Visive di NABA, ”Formare l’artista del futuro significa formare un creativo a 360° che sia attento alla potenzialità delle cose”

Durante la serata riservata alla stampa dell’exhibition #35ModernArt, ideata da Nescafé® Dolce Gusto® e realizzata in collaborazione con gli studenti del terzo anno del Triennio in Pittura e Arti Visive di NABA, abbiamo intervistato Marco Scotini.

In occasione di #35ModernArt, il Premio indetto da Nescafé® Dolce Gusto® in collaborazione con NABA, la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, abbiamo intervistato Marco Scotini, Direttore del Dipartimento di Arti Visive. #35ModernArt è il progetto che ha messo in mostra 35 artisti e i loro lavori, dall’installazione alla performance, dalla pittura alla scultura, e che è stato vinto dalla giovane artista piemontese Giulia Pellegrini

MILANO – Durante la serata riservata alla stampa dell’exhibition #35ModernArt, ideata da Nescafé® Dolce Gusto® e realizzata in collaborazione con gli studenti del terzo anno del Triennio in Pittura e Arti Visive di NABA, abbiamo intervistato Marco Scotini, Direttore del Dipartimento di Arti Visive, curatore indipendente e Presidente della Giuria internazionale che ha decretato il vincitore di #35ModernArt: Giulia Pellegrini.

Studioso di architettura ed estetica é stato allievo di C. L. Ragghianti e, dal 1996 al 2003, membro della Fondazione Ragghianti di Lucca. Collabora con le riviste Arte e Critica, Flash Art, Domus, Moscow Art Magazine, Brumaria, Kaleidoscope, Manifesta Journal etc. È direttore della rivista No Order. Art in a Post-Fordist Society, pubblicata da Archive Books (Berlino). E’ inoltre critico d’arte e curatore indipendente. Tra le ultime esposizioni curate figurano: le prime tre edizioni della Prague Biennale (2003-2007); Gianni Colombo, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, con Carolyn Christov-Bakargiev, 2009-2010; A History of Irritated Material, Raven Row, Londra, 2010, con Lars Bang Larsen. Dal 2005 cura il progetto Disobedience. An ongoing video Archive, presentato in numerosi spazi espositivi in giro per il mondo.

Da docente ed esperto d’arte, che cosa rappresenta per te l’estetica?


In questo momento della nostra storia è uno dei fattori più importanti con cui ci dobbiamo confrontare e forse hai scelto il personaggio giusto per parlarne: nel senso che tantissimi dei miei scritti e delle mie conferenze ribadiscono continuamente la centralità del paradigma estetico, rispetto ad esempio al paradigma scientifico, di qualche decennio fa. Centralità che ha preso piede con la fine della modernità, dagli anni ’70 ad oggi. Addirittura fino al ‘700 l’estetica non c’era, per cui si potrebbe parlare solo di un paradigma religioso. Con l’idea di paradigma estetico intendo dire che ci siamo accorti da un lato dell’insufficienza dei criteri scientifici, nel senso che nonostante questi pretendessero di dichiarare la veridicità delle cose, ci siamo resi conto che a volte dichiaravano anche delle falsità ed era difficile discernere il vero dal falso; mentre al paradigma estetico questo non interessa perché esso fornisce una affermazione soggettiva nella proposta delle cose. Parlo di centralità di questo paradigma perché esso è interno alla società: quando oggi si deve costruire un nucleo sociale, familiare, parentale hai bisogno dell’estetica. Credo che abbiamo perso tutti i rapporti di appartenenza che la società del passato ci ha tramandato quindi abbiamo bisogno di reinventarceli. Io da padre mi devo reinventare un rapporto con il figlio che certo non può più essere di tipo patriarcale così come l’abbiamo ereditato; e in ugual modo anche il rapporto con gli studenti non è più lo stesso del passato. Centralità del paradigma estetico significa anche assumersi la responsabilità della dichiarazione delle cose, cioè quando dico che questo oggetto ha un senso per me, non dico che ciò sia vero per tutti, dico che ha un senso per me e a quel punto esso si trasformerà in una condizione dell’etica, del rapporto tra le persone e della negoziazione. Ho anche fatto recentemente una mostra sui vegetali, con cose che hanno a che fare con l’ecosofia, con l’ecologia e in cui ho posto due realtà a confronto: un museo d’arte che si occupa del rapporto con i vegetali e ha a che fare con gli artisti e un orto botanico, quale espressione del paradigma scientifico. Oggi ci si rende conto che l’estetica non ha a che fare solo con l’arte ma anche con il sociale, con l’ecologico, con tutta una serie di elementi che qualche anno fa non sospettavamo.
Così anche dal punto di vista del docente, non si tratta di insegnare una disciplina artistica, si tratta di insegnare una metodologia che fonda le soggettività dentro la realtà contemporanea. Oggi le Accademie di belle arti sono frequentate anche da economisti, da teorici della scienza o della giurisprudenza, proprio perché il paradigma estetico si è insediato nella società.

Di che cosa parla il libro The Soweto Project? (Presentato a Torino durante Artissima 2014 ed edito da Archive Books)

E’ un piccolo libro ma straordinario, fatto da una grande artista che ha una formazione da architetto ma che qui lascia la propria disciplina per cercare altre realtà attraverso un paradigma estetico. E’ un’artista che ammiro da moltissimi anni e si chiama Marjetica Potrč. Marjetica non si è servita dell’arte per riconoscimenti di tipo autoritario, economico o commerciale ma – al contrario – ha investito l’arte di una capacità di rigenerare il mondo e di interpretarlo. Da questo punto di vista The Soweto Project è un intervento, fatto assieme ad una scuola di Amburgo, che si confronta con la realtà e lo spazio del Sudafrica. La cosa fondamentale è che non si tratta solo di uno spazio fisico ma anche psichico: è lo spazio del trauma dell’apartheid e quindi anche in questo caso troveremo uniti elementi della politica, della natura e della biologia. Marjetica poi è intervenuta attraverso un parco e un giardino comunitario, un “vegetable garden”. Nel passato lo spazio pubblico era uno spazio che apparteneva al Demanio ma oggi tutto è stato privatizzato, per cui dobbiamo reinventare il senso di spazio pubblico. Costruire una realtà, apparentemente minoritaria come un giardino vegetale collettivo, attraverso forme di socializzazione, serve a creare spazi comuni anche temporanei.

Ho letto che sei tra i curatori della piattaforma Isola Art Center. Ce ne puoi parlare? Qual è il tuo prossimo progetto?

Isola Art Center ha ormai una lunga storia, che è stata raccolta anche in un libro, “Fight-Specific Isola”, pubblicato da Archive Books di Berlino e devo dire che ho appartenuto fin dall’inizio a questo progetto, che mi ha investito personalmente anche perché io a Isola ci ho abitato fin dal 2001 al 2004. Se c’è ancora un’operazione possibile nei confronti di Isola Art Center, è quella di assumerla come modello per esportare altrove, nonostante tutto sia stato poi calato dall’alto con esiti che poi non ci aspettavamo. Un tempo c’era la Stecca degli Artigiani con due spazi verdi posti lateralmente a via Confalonieri dove oggi hanno costruito il Bosco Verticale e gli altri grattacieli. In certo senso si può vedere come anche una lotta di classe possa attivare l’estetico, e attivare forme di collaborazione, produzione, innovazione che attualmente non puoi trovare in altri contesti. Ti parlo degli anni fino al 2007, fino a quando la Stecca degli Artigiani è stata distrutta, anni in cui si era sprigionata una grande energia. Uno degli aspetti oggi più interessanti è quello di attualizzare la potenzialità delle cose; non abbiamo più un pensiero radicalmente trasformativo ed utopistico, per cui non abbiamo più in mente un modello che devi applicare da qualche parte a costo della rivoluzione. Quello che mi interessa particolarmente è un’attitudine affermativa, post-utopistica, che si confronta anche con le pratiche di ogni giorno, che hanno necessità dell’estetica, in cui ci sia questa negoziazione continua e di presidio sulle cose, della possibilità di nominarle, di acquisirle, di pensarle diversamente. Quindi secondo me più che l’attualità è importante la potenzialità delle cose, il potenziale che queste cose possono generare e far nascere. Dal mio punto di vista credo che tutta quest’idea della potenza, della parte latente, di ciò che non vediamo o non facciamo, è veramente qualcosa che dovremmo cominciare a vedere, a fare, se davvero vogliamo cambiare la situazione. Dovremmo incominciare a “grattare” sotto le cose; essere realisti va bene ma esserlo significa confrontarsi anche con questo nucleo di potenzialità infinita che mai come ora abbiamo a disposizione.

Come Direttore del Dipartimento di Arti Visive di NABA, parlaci del progetto #35ModernArt.

Uno dei modelli con cui ho fondato questa scuola di Arti Visive, quando secondo me non ce ne era uno alternativo nella cultura italiana, era proprio svincolarla dalle tecniche tradizionali, da quel sapere disciplinare che ancora tante Accademie contengono. Mi piaceva vedere processi di formazione direttamente a contatto con la realtà delle cose. Cioè non vedere più la formazione come qualcosa di propedeutico a un sistema che è totalmente esterno e “selvaggio”. Io credo che anche un artista contemporaneo, se si utilizza l’accezione di “artista” in senso allargato (cioè post-beuysiano, in cui tutti abbiamo la possibilità di esserlo nella nostra capacità trasformativa e plastica) credo sia giusto che fin dagli anni della formazione uno si debba confrontare con la vita reale, con sistemi di produzione reali. Questo non significa immediatamente “sposare le cose”, quanto piuttosto confrontarsi con esse, poter continuamente scoprire questo nucleo di potenza, che io trovo la nostra più grande ricchezza. Da qui ai prossimi anni, dev’essere questo il nostro percorso di ricerca.

Quali sono le altre iniziative della NABA per trasformare i giovani talenti di oggi negli artisti di domani?

Il triennio Arti Visive NABA è relativamente giovane, poiché la sua nascita risale al 2003-2004 quindi ha dieci anni; invece il biennio di specializzazione in Arti Visive e Studi Curatoriali è stato attivato dal 2007. Nonostante ciò, in questo breve arco di tempo ci siamo imposti tra le scuole più importanti. Ad esempio all’ultima Documenta di Kassel, come biennio specialistico, siamo stati chiamati tra le 15 scuole di Arti Visive nel mondo a lavorare per 100 giorni accanto agli artisti. Questo è stato sicuramente un grande riconoscimento ma anche una grande sfida, nel senso che l’aspetto importante è che se c’è una biennale, al di là di tutte le critiche che si possono muovere, ne devi prender parte. Se c’è una qualsiasi manifestazione nella realtà contemporanea, non puoi rimanere all’esterno perché questa esternità è solamente illusoria. E’ giusto porre il confronto in scala reale con le cose, sempre tenendo presente che le cose che ci vengono mostrate sono solo una faccia delle cose possibili. Formare l’artista del futuro nell’accezione che ti dicevo prima e quindi non un pittore, uno scultore ma piuttosto un artista a 360°, significa formare qualcuno che sappia intervenire nei processi di produzione, dentro ai sistemi sociali, a quelli ambientali, che abbia una creatività che sia al servizio non delle cose che ci sono già, ma di quelle potenziali. Secondo me l’esercizio più grande che da dieci anni a questa parte stiamo facendo con NABA, è un principio comune di confronto con la realtà per trovare questa modalità potenziale. Oggi non c’è più la polarità vero/falso o giusto/ingiusto di tipo tradizionale, ma ci sono “i possibili”. Dentro questi “possibili” non posso più immaginarmi immediatamente il bianco e il nero come già dati, ma devo creare un terzo, un quarto, un quinto nuovo elemento. Questo è secondo me la posta in gioco dell’artista del futuro, tutto il resto è decorazione, mercificazione, status quo.

26 novembre 2014

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