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“Le reti di quadri” di Gaetano Cataldo: un piccolo capolavoro nel panorama letterario siciliano

Il critico Alessandro Centonze, consigliere della prima sezione penale presso la Corte di Cassazione, dedica alcune brevi riflessioni sul romanzo di Gaetano Cataldo

Con il bellissimo romanzo Le reti di Quadri, pubblicato presso la Casa editrice Prova d’Autore, Gaetano Cataldo mostra una maturità narrativa inaspettata per un esordiente, sia pure aduso alla scrittura, che si esprime attraverso uno stile ironico e coinvolgente, che, pur prendendo spunto dalla produzione sciasciana, ne rivisita i modelli letterari, dando vita a uno splendido spaccato della vita giudiziaria e accademica della provincia siciliana.

L’Autore, un magistrato quarantenne che opera a Catania, ma che proviene dal mondo della ricerca, sceglie di sviluppare la trama del suo romanzo come un racconto a due voci, incarnate da due amici, un Sostituto Procuratore (Antonio Grisafi) e un Professore universitario (Carlo Ernesto Quadri), i quali si confrontano sul piano intellettuale e investigativo – dando vita a un’indagine parallela dagli esiti inaspettati per il lettore – con l’omicidio di Irene Landolina, una giovane laureata in giurisprudenza.

I due amici indagano parallelamente sull’omicidio di Irene Landolina, assegnato giudiziariamente ad Antonio Grisafi, servendosi degli strumenti tipici delle loro esperienze professionali, seguendo un percorso, in apparenza dissimile, ma in realtà collegato da due fili conduttori comuni che costituiscono il nerbo del romanzo: la sfida intellettuale ed etica finalizzata alla ricerca della verità giudiziaria e il rapporto del siciliano-etneo con il potere giudiziario nei suoi molteplici risvolti sociali e soprattutto psicologici.

La stima reciproca di Grisafi e Quadri impedisce il conflitto tra i due protagonisti – voci narranti dichiarate dello stesso Cataldo – permettendo all’Autore di sceverare, con il suo stile ironico e mai impietoso, le contraddizioni e le ambiguità proprie del sistema giudiziario e di quello accademico nella città di Catania; contraddizioni e ambiguità che finiscono per rappresentare una vera e propria metafora del rapporto dei cittadini siciliani con la Giustizia e il potere giudiziario.

Dunque, entrambi i protagonisti de Le reti di Quadri sono una proiezione narrativa di Gaetano Cataldo, facendosi portatori di una dimensione della propria quotidianità, sul duplice versante professionale e intellettuale.

Questa sfida intellettuale ma anche e soprattutto epistemologica pervade l’intero romanzo di Gaetano Cataldo, facilitando al contempo l’accesso del lettore al mondo di Antonio Grisafi e Carlo Ernesto Quadri – che è evidentemente l’universo culturale dell’Autore – i quali, in un appassionante gioco di specchi narrativi, perseguono l’obiettivo della ricerca della verità sull’omicidio di Irene Landolina, pur rimanendo entrambi insoddisfatti dall’esito delle proprie indagini; delusione che è giudiziaria per Grisafi e intellettuale per Quadri, i quali inesorabilmente rimarranno delusi, nonostante gli sforzi profusi.

In questa cornice romanzesca, una delle prime sensazioni che si prova nel leggere il romanzo di Gaetano Cataldo è quella causata dalla marginalità narrativa dell’imputato, Muhammed Abdel Kadel, che incarna la tipica figura capro espiatorio giudiziario, tanto è vero che a tutti protagonisti del romanzo – fatta eccezione per l’intellettualmente indomito professor Quadri – sembra rappresentare il modello esemplare del colpevole di un omicidio, a tutti sembrando credibile e inevitabile la sua colpevolezza.

Sull’imputato, infatti, sembrano coincidere tutti gli elementi indiziari acquisiti fin dalla prima fase delle indagini, sorrette dal sentimento anti-islamico, dominante nella città etnea e incentivate dal circuito mediatico; ma tale apparente convergenza indiziaria è fallace, tanto è vero che tra le riflessioni del Sostituto Procuratore Grisafi compare anche quella sugli strumenti giuridici in suo possesso per «tutelare il povero Abdel Kadel Muhammed dal proprio difensore», che più avanti indicheremo con maggiore precisione.

Tutto questo è tanto più vero in quanto il successo della difesa di un imputato debole dipende dalla bravura del suo difensore, inversamente proporzionale alle sue disponibilità economiche; il che consente all’Autore di compiere una riflessione di grande respiro intellettuale – di segno tipicamente anch’esso troisiano – sul rapporto tra l’avvocato penalista e il suo assistito, da un lato, sul rapporto tra la Giustizia e la verità giudiziaria, dall’altro; rapporto, quest’ultimo, che, come si è detto, rappresenta lo sfondo di uno dei due fili conduttori del romanzo di Gaetano Cataldo, costituito dall’imprescindibile sforzo intellettuale ed etico finalizzato alla ricerca della verità, giudiziaria e umana.

Solo alla fine del romanzo, invero, si comprende quale sia l’ideale forense penalistico di Gaetano Cataldo – incarnato dall’avvocato Giacomo Grisafi, il padre del Sostituto Procuratore Grisafi – che è quello di un avvocato-umanista, che affonda le sue radici culturali nel pensiero illuministico settecentesco, riconducibile a Cesare Beccaria e Gaetano Filangeri. Tuttavia, la difesa del povero Abdel viene all’avvocato-illusionista Reinò, con una conclusione processuale che è e appare quasi scontata fin dalle prime pagine del nostro romanzo.

Questo ideale illuministico della ricerca della verità giudiziaria risale a Leonardo Sciascia, modello letterario dichiarato de Gaetano Cataldo, secondo cui la legge è la forma della ragione. Con questo ideale illuministico si confrontano entrambi i protagonisti del romanzo per tutto lo sviluppo dell’appassionante narrazione.

Il Sostituto Procuratore Grisafi, in particolare, in un bellissimo passaggio del romanzo, esprimendo un punto di vista all’apparenza sofistico ma in realtà realistico, afferma che «verità e falsità non esistono, se non in ordine alle nostre previsioni di ciò che accadrà nella realtà», aprendo uno squarcio su quello che è il pensiero dell’Autore sulla Giustizia e sull’andamento dei processi penali.

A questa visione realistica della giustizia del Sostituto Procuratore Grisafi si contrappone quella disincantata del professor Quadri che afferma causticamente: «Che si desse al Giudice la facoltà di applicare al destinatario dei suoi provvedimenti tutto il corpus di leggi voluto dalla parte politica che il destinatario del provvedimento aveva votato, e di disapplicare il corpus di leggi non voluto dalla parte politica, che il destinatario del provvedimento aveva votato».

Come si è detto, l’omicidio di Irene Landolina su cui si confrontano i due protagonisti del romanzo è quello di una giovane donna, presumibilmente un giovane praticante avvocato, la cui identità e le cui debolezze emergeranno poco per volta, insieme alle sue complesse vicende sentimentali fino alla verità inattesa, molto tempo dopo la chiusura del caso che vede unico imputato Muhammed Abdel Kadel.

A ben vedere, quello del rapporto tra la trama narrativa dell’opera di Gaetano Cataldo e le figure femminili che si muovono al suo interno, costituisce un ulteriore filo conduttore del racconto, sia pure non facilmente decifrabile, rappresentato dall’apparente marginalità delle donne del suo racconto, tra l’altro segnalata nell’acuta recensione di Giulia Sottile pubblicata su Ebdomadario.

Questa marginalità apparente delle figure femminili, invero, è uno degli splendidi specchi narrativi del romanzo di Gaetano Cataldo, se si considera che le donne, al contrario di quanto sembra, hanno un ruolo decisivo – ma solo evocato – rispetto al dipanarsi della trama, com’è desumibile dal passaggio iniziale del romanzo, nel quale si segnala l’anomalia giudiziaria che attiverà la curiosità intellettuale del professor Quadri, riguardante la mancata assegnazione del caso Landolina a una donna, come di prassi accadeva in quelle circostanze. Si tratta, però, di un’anomalia giudiziaria solo apparente, perché questa scelta era dovuta al fatto che una donna alla guida delle indagini poteva essere capace di scoprire quello che un uomo non era capace di scoprire e che avrebbe potuto sovvertire gli equilibri giudiziari cittadini.

Tuttavia, le donne e soprattutto le donne-giuriste, al contrario di quanto potrebbe apparire a un primo sguardo, sono tutt’altro che marginali nel contesto narrativo, perché, oltre alla figura della vittima, questo ideal-tipo è presente in un’altra figura centrale del libro, la moglie del Procuratore Generale – la giovane a avvenente professoressa Maggiore, quasi a sottolineare la facilità con cui le donne dell’ambiente giudiziario meridionale tendono a cedere alle lusinghe del potere – la quale rappresenta, per molti aspetti, una figura speculare a quella di Irene Landolina, sul piano della bellezza e dell’ambizione, oltre che tetragona rispetto alle fascinazioni del potere giurisdizionale, dal quale solo apparentemente risulta lusingata.

Nel romanzo di Gaetano Cataldo, dunque, la presenza femminile è decisiva ma defilata – come si è detto evocata – nel suo racconto, rappresentando la donna-giurista rappresenta uno dei principali modelli della commedia umana che fa da sfondo all’analisi dell’Autore sul mondo giudiziario etneo, rispetto alla quale, anche quando vengono dipinte come ipocrite, tornacontiste, brancatianamente maliziose, non sono mai sciocche.

Infatti, alle spalle di ogni maschera femminile presente nel romanzo di Gaetano Cataldo c’è sempre un’intelligenza vivida, affilata e pervasa da una sorta di immanente ambivalenza, che è l’espressione del conflitto spesso irrisolvibile tra bellezza e sapienza, che risale al mondo greco classico e al conflitto perenne tra Venere e Minerva.

Un discorso a parte, infine, meritano le figure narrative di contorno della trama narrativa de La rete di Quadri, che fanno comprendere al lettore come il racconto sull’ambiente giudiziario etneo, che procede in parallelo al vero e proprio giallo sull’uccisione di Irene Landolina, ha un’impronta polifonica, incentrata su alcuni personaggi forensi, marginali – ma di quella marginalità decisiva che si è vista per le figure femminili del romanzo – rispetto al filone romanzesco principale. Anche in questo lo sguardo letterario di Gaetano Cataldo colpisce nel segno con straordinaria lucidità letteraria, dando vita ad alcune figure memorabili, guardate con lo sguardo benevolo dell’Autore, che è poi lo sguardo del magistrato Gaetano Cataldo, del quale ho avuto il piacere di apprezzare le sue eccelse doti di umanità e professionalità come collega.

Tra queste, mi permetto di segnalare la figura dell’avvocato Rando, assessore provinciale rampante e che nella commedia umana dell’Autore rappresenta l’ideal-tipo dell’avvocato-pavone, di cui me permetto di segnalare anche il mirabile siparietto tra il Sostituto Procuratore Grisafi e le due giovani – e si suppone avvenenti fisicamente – praticanti del legale, davanti alle quali il magistrato, per l’unica volta in tutto il romanzo, cede alle lusinghe della vanità, peraltro solo maschile (pp. 63-67).

Mi permetto di segnalare anche la figura dell’avvocato Mertoldi, l’ideal-tipo dell’avvocato-mite, forse prediletto umanamente dall’Autore, anche se probabilmente più come normotipo umano – sempre un passo dietro agli altri e quasi ostile a ogni lusinga, vissuta come un’invasione della propria sfera privata – che come figura professionale (pp. 32-33);

E ancora: la figura dell’avvocato Reinò, a mio modesto avviso, la più riuscita dal punto di vista narrativo della commedia umana messa in piedi da Gaetano Cataldo sul mondo giudiziario, che incarna l’ideal-tipo dell’avvocato-illusionista nella tradizione della “paglietta napoletana” alla Edoardo Scarpetta, nonché allievo apostata e quasi disconosciuto dell’avvocato Grisafi senior (pp. 68-70).

Lo stesso avvocato Giacomo Grisafi, avvocato-umanista, cui vanno, come si è detto le preferenze dichiarate di Gaetano Cataldo, sul piano etico e culturale, cui fa da contraltare il suo vero allievo professionale, solo tratteggiato, rappresentato dall’avv. Filippo La Spina (pp. 14-15, 92-94).

Bellissime, infine, le pagine del romanzo dedicate al professor Simonini e al suo incontro con il Sostituto Procuratore Grisafi nello stabile dove era stata assassinata Irene Landolina, che rappresenta mirabilmente la figura dell’intellettuale sfiduciato e depresso.

Ero rimasto sinceramente incantato alla prima lettura e ancora di più lo sono rimasto adesso, rileggendo la parte relativa al dialogo tra Antonio Grisafi e il professor Simonini (pp. 54-62), che apre uno squarcio sulle crepe e sui pericoli dell’intelligenza “distratta”; meritava da solo un racconto, sullo stile di Sebastiano Addamo.

Ed è lui che traccia il filo oscuro della vita che vale da solo lo splendido romanzo di Gaetano Cataldo: «Avvolti da un velo lattiginoso di litio che Grisafi aveva altre volte scorto nello sguardo dei depressi, gli occhi girarono a scatti, in su e di lato, per rovistare tra chissà quali immagini della memoria».

Alessandro Centonze

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